L’acondroplasia è una rara malattia genetica caratterizzata dal prematuro arresto di accrescimento delle ossa dello scheletro, causata da alterazioni a carico del gene FGFR3, codificante per una molecola espressa nella cartilagine di accrescimento, e che ha un’incidenza mondiale di circa 1 caso su 25.000 nati vivi.
I bambini colpiti presentano bassa statura e arti corti rispetto al tronco, macrocefalia (testa in proporzione molto più grande del corpo) e caratteristiche anomalie del volto, in particolare fronte alta e ridotto sviluppo della porzione inferiore della faccia. Queste deformazioni scheletriche possono comportare un ritardo dello sviluppo motorio, mentre in genere quello intellettuale è normale.
Tale patologia genetica si trasmette con modalità autosomica dominante, per cui basta ereditare una copia alterata del gene da uno dei genitori per manifestare la malattia. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si manifesta in modo sporadico, cioè senza che siano coinvolte altre persone in famiglia. Per quanto riguarda la diagnosi il metodo più attendibile è effettuare il test genetico per l’acondroplasia che risulta positivo quando da esso emerge la presenza di una mutazione a carico del gene FGFR3, situato sul cromosoma 4. Analizzando i vari profili genetici dei pazienti analizzati, gli scienziati hanno osservato che esistono diverse tipologie di mutazione di FGFR3, capaci di scatenare l’acondroplasia.
Per ovvie ragioni, il test genetico è l’esame diagnostico più attendibile.
Grazie invece a un protocollo ortopedico, ideato già nel 1982 dall’ASST Gaetano Pini-CTO di Milano, chi è affetto da questa patologia, che comporta la brevità degli arti e un rapporto alterato tra lunghezza degli arti e del busto, può raggiungere 1,50 metri d’altezza, ottenendo diversi benefici sia per quanto riguarda la salute fisica che psicologica. In occasione della Giornata della Malattie Rare che si celebra il 28 febbraio, in un’intervista rilasciata a Insalutenews ne parla il dott. Antonio Memeo, Direttore dell’Ortopedia e Traumatologia Pediatrica dell’ASST Gaetano Pini-CTO ed esperto nella tecnica dell’allungamento degli arti.
“Il protocollo che utilizziamo da quasi 40 anni -spiega il Dott. Memeo- e che nel corso del tempo abbiamo sempre più affinato e migliorato, essendo il nostro un centro di riferimento per le persone con acodroplasia, prevede la correzione delle deviazioni assiali degli arti inferiori con l’obiettivo di restituire l’armonia delle forme, per cui raddoppiamo anche la lunghezza degli arti inferiori. L’allungamento avviene in 5 tempi: si parte a 6 anni e il percorso finisce a 15 anni. Si lavora in maniera alternata su tibie e femori e l’ultimo intervento è sugli arti superiori (omeri). Con questo procedimento otteniamo un allungamento complessivo degli arti inferitori tra i 28 e i 35 centimetri e raddoppiamo la lunghezza degli omeri. Il processo comincia con l’osteotomia, ovvero la sezione dei segmenti ossei che vengono distanziati: le nostre ossa sono in grado di rigenerarsi. Ogni giorno l’osso ricresce di un millimetro però questa crescita deve essere guidata e a farlo sono i fissatori esterni, una sorta di gabbie metalliche attaccate agli arti, ideate dal medico Ilizarov alla fine degli anni ’70, che immobilizzano gli altri e al contempo provocano una trazione scheletrica da cui scaturisce l’allungamento. Un procedimento del tutto assimilabile avviene con il chiodo endomidollare”.
La tecnica prevede, quindi l’interruzione del segmento osseo, tramite una frattura procurata e il distanziamento delle due parti. A questo punto l’osso reagisce con l’istogenesi, ossia l’azione di rigenerazione del tessuto con la nascita di nuove cellule. Più le due parti vengono allontanate più tessuto si forma ottenendo così l’allungamento.
Lo strumento necessario a raggiungere questo risultato è un fissatore circolare, una gabbia cilindrica che viene posta intorno alla gamba. È formato da una serie di cerchi distanziati da piccole aste alle quali sono collegati fili e viti che vengono impiantati nell’osso al momento dell’intervento chirurgico. Queste aste sono allungabili e permettono al medico di aumentare gradatamente la distanza. Il fissatore tradizionale circolare (oggi con anelli di carbonio e fissazione molto stabile) viene utilizzato nei semplici allungamenti, mentre nella correzione delle deformità si usano fissatori sempre circolari ma con un sistema di connessione degli anelli “esapodalico” che può essere pianificato con un programma digitale computerizzato. L’allungamento, eseguito per gradi, concede ai tessuti molli di rigenerarsi ed adattarsi alla nuova circostanza.
Tale trattamento, al di là della presenza della patologia, può essere applicato per casi selezionati anche per motivi puramente estetici. Il segmento che viene allungato è la gamba per un’entità di 6-8 cm con un tempo di 10-12 mesi di trattamento con fissatore. L’allungamento estetico del femore può essere fatto con un fissatore esterno o, meglio, con chiodo endomidollare motorizzato.