Quando si parla di ingegneria biomedica, il primo pensiero corre alle protesi e, attualmente, ne esistono di svariati tipi: da quelle ortopediche a quelle acustiche, dalle neuroprotesi a quelle ortodontiche.
Nel corso degli anni l’ingegneria ha fatto passi da gigante e oggi, molto probabilmente, sarà possibile gestire una protesi con il semplice uso del pensiero.
Non è telecinesi, affatto, ma si tratta di un dispositivo in grado di interpretare i sottili impulsi elettrici dei muscoli, traducendoli in segnali interpretabili dalle protesi.
Un esempio simile era già stato trattato in un altro articolo, riguardante l’effettiva possibilità di riacquistare l’uso di arti “bloccati” da una paresi.
Ma qui la circostanza è diversa.
La storia è di Jodie O’Connell-Ponkos, che perse parte del suo braccio destro all’età di 16 anni mentre lavorava in fabbrica nel 1985.
Da allora, come accade per la maggior parte delle persone con amputazioni, nonostante i progressi e la reperibilità, Jodie non aveva mai cambiato la sua protesi nell’arco di 25 anni.
In generale, si stima che dal 2007 il 75% degli utenti rigettavano le protesi con componenti elettroniche.
Ciò poteva essere dato dal fatto che, nonostante i migliori materiali, i motori più potenti e le giunture aggiuntive, le protesi si basavano ancora sui controlli sviluppati nel 1950.
In più, il movimento non risultava molto naturale, aggiungendo goffaggine anche ai gesti più semplici.
Nonostante tutto, Jodie decise di cambiare e provò una nuova protesi elettronica, dotata di un dispositivo, ideato e prodotto da una compagnia ingegneristica di Chicago, la Coapt.
Grazie al suo funzionamento di base, cioè il riconoscimento di sottili segnali elettrici dei muscoli, non solo Jodie è riuscita ad ottenere movimenti più fluidi e naturali, ma la indossa costantemente, sia durante le lezioni di equitazione, sia per farsi una semplice coda ai capelli.
La Coapt ha partecipato alla American Orthotic and Prosthetic Association conference di Boston nel 2015 e proprio Jodie ne era la promotrice ufficiale.
Il dispositivo è compatibile con le 5 principali protesi attualmente sul mercato.
La compagnia di Chicago è sbarcata sul mercato nel tardo 2013 e ad oggi sono almeno 200 le persone che usufruiscono del loro sistema, come conferma il co-fondatore e il CEO, Blair Lock.
IL DISPOSITIVO
Il dispositivo, primo ed unico al mondo, è racchiuso in una piccola scatola nera e fonde la microelettronica sofisticata con algoritmi che utilizzano modelli di riconoscimento per la decodifica degli impulsi elettrici del braccio, come un ponte tra il pensiero dell’utente e la protesi stessa a cui è collegato.
I muscoli fungono da amplificatori per i segnali elettrici che, da soli, sarebbero troppo deboli per essere percepiti e decodificati
“e contengono una “sinfonia” di informazioni”
asserisce Lock, dove il software di riconoscimento riesce a tradurre il segnale amplificato in un preciso movimento.
Un secondo progetto imminente vede la compagnia impegnata nella realizzazione di un dispositivo di seconda generazione, più piccolo di quello attuale, ma non solo: si prevede anche lo sviluppo di una tecnologia impiantabile, sebbene il CEO della Coapt, ovviamente, non abbia rilasciato dettagli riguardo alla sua tecnologia.
La Coapt non è la sola a voler migliorare il modo in cui si possono vivere le protesi.
La John Hopkins’ Modular Prosthetic Limb, MPL (anch’essa utilizza software di riconoscimento dei segnali) si pone come obiettivo la vera e propria “ traduzione di pensieri in movimento”, come asserisce l’ingegnere capo per la ricerca e lo sviluppo del Johns Hopkins Applied Physics Laboratory, Mike McLaughlin.
Inoltre, esiste anche la DEKA Research’s “LUKE Arm,” che prende il nome da Luke Skywalker della famosissima saga di Star Wars, che non solo ha utilizzato il sistema sviluppato dalla Coapt, ma vanta anche un sistema wireless per il controllo del movimento mediante l’uso dei piedi, grazie ad una sorta di joystick.
Nonostante i notevoli progressi, un movimento interamente fluido e naturale è ancora lontano dall’essere ottenuto.
Il vero ostacolo non è la tecnologia ( basti infatti pensare che il MPL possiede ben 26 articolazioni e 200 sensori di movimento), ma bensì la larghezza di banda necessaria per la rilevazione dei segnali elettrici.
“Se spostiamo un braccio, vengono coinvolti circa 500 milioni di neuroni e in questo momento, il meglio che possiamo fare, è recepire solo qualche centinaio di questi neuroni”
spiega McLaughlin.
“Nella nostra mente succedono tantissime cose e abbiamo una capacità molto limitata di osservarlo”.