Nonostante i progressi ottenuti grazie alla ricerca, il cancro rimane la seconda causa di morte a livello globale: solo nel 2018 sono stati 9.6 milioni i decessi causati da questa patologia. Le possibilità di trattamento sono aumentate negli anni, migliorando anche il tasso di sopravvivenza alla malattia. Le tecniche più affermate e diffuse sono chirurgia, radioterapia e chemioterapia. Ma grazie agli studi e alle ultime scoperte sono ora disponibili anche nuove alternative, tra cui l’immunoterapia.
La logica alla base di questo approccio è quella di stimolare il sistema immunitario del paziente al fine di farlo attaccare le cellule tumorali. La principale complicazione correlata a ciò è che i farmaci immunostimolanti possono rendere l’intero sistema immunitario troppo attivo e farlo attaccare anche le cellule sane, il che porta ovviamente a una serie di complicazioni. Per risolvere questo problema i ricercatori del MIT hanno ideato un nuovo metodo per distribuire le molecole solo nel sito tumorale. La nuova tecnica permetterebbe di sfruttare i vantaggi dell’immunoterapia, donando una nuova possibilità di cura ai malati di cancro.
Per crescere, i tumori secernono molecole che disattivano il sistema immunitario, che non riesce quindi a opporsi alla loro proliferazione. Queste molecole, tra cui figura ad esempio la PD-1 (dall’inglese Programmed cell death protein 1, letteralmente proteina della morte cellulare programmata), fanno parte dei cosiddetti checkpoint immunitari, che appunto frenano l’attività naturale del sistema immunitario. Per cercare di “sbloccarlo” sono già disponibili dei farmaci, ovvero gli inibitori del checkpoint immunitario (IC). Il loro impiego, però, non è applicabile a tutte le tipologie di cancro.
I ricercatori hanno quindi pensato di abbinare l’impiego degli IC a dei stimolatori del sistema immunitario, in modo da poter servire una platea più ampia di pazienti. Le principali candidate al compito di stimolatori sono le citochine, che però sono molto tossiche e non possono quindi essere somministrate al corpo intero. Risulterebbe quindi adeguato riuscire a localizzare gli effetti del trattamento al solo sito tumorale.
In un primo studio condotto al MIT nel 2019 si è quindi deciso di fissare le citochine a delle proteine che legano il collagene, le quali fungono da “velcro” per la zona da trattare. I tumori, infatti, sono ricchi di questa sostanza e grazie a questa funzionalizzazione le molecole restano nel sito di interesse. La proteina scelta era stata il lumicano e i risultati su topi erano stati soddisfacenti. Tuttavia, questa strategia dà risultati variabili in base alla quantità di collagene presente nel tumore, che varia non solo da paziente a paziente, ma anche in base al tipo di cancro. Inoltre la concentrazione di collagene si modifica nel tempo a causa dello sviluppo del tumore stesso.
Nel nuovo studio i ricercatori hanno pensato a un nuovo “velcro” per legare i tumori. Invece di sfruttare la presenza del collagene, infatti, è stato utilizzato idrossido di alluminio. Questo sale viene spesso usato anche nei vaccini come adiuvante, in quanto ha la capacità di amplificare la risposta immunitaria dell’organismo. La sua conformazione caratteristica è data da nanocristalli a forma di bastoncini che formano dei depositi nel sito di iniezione che durano per più settimane. Le proteine, come ad esempio le citochine, si legano all’idrossido di alluminio grazie a reazioni di idrolisi. Le molecole usate per lo studio sono infatti state preparate semplicemente mischiando insieme idrossido di alluminio e citochine.
Anche in questo caso sono stati eseguiti test su ratti che hanno dato ottimi risultati. I ricercatori hanno trattato gli animali con la citochina interleuchina 12 (IL-12) legata all’idrossido di alluminio insieme a un trattamento IC anti-PD1.
Dai modelli di tre tipi di cancro si sono ottenute percentuali di rimozione del tumore variabili dal 50 al 90%. Non solo: anche la sola somministrazione di IL-12 legata all’idrossido di alluminio, senza IC, ha dimostrato una buona abilità nella stimolazione del sistema immunitario. Inoltre, è stato dimostrato che la citochina IL-12 stimola la produzione dell’interferone gamma, un’altra citochina che collabora con la precedente per attivare cellule T, cellule dendritiche e macrofagi, ovvero tutti attori della risposta immunitaria. Oltre a ciò, questo tipo di trattamento sembra stimolare la memoria delle cellule T, il che risulta particolarmente utile nel caso di una ricaduta del tumore. Sui topi, infine, non si sono riscontrati gli effetti collaterali che si trovano quando l’IL-12 viene infusa sistematicamente.
Il nuovo approccio è stato brevettato da una startup che mira a iniziare i trial clinici entro la fine del 2022. Il piano è quello di verificare prima la sicurezza delle sole molecole di IL-12 legate all’idrossido di alluminio. Si passerà poi al loro uso in combinazione con gli IC. Tra i vari aspetti da indagare vi sono la degradazione a lungo termine delle citochine, che come accennato in precedenza possono essere tossiche. In questo primo studio, infatti, sono stati monitorati solo gli effetti nelle settimane successive al trattamento.
Serve ancora molto lavoro per rendere questa nuova tecnica di immunoterapia una pratica clinica comune, ma i primi risultati sono già un enorme passo in avanti nella lotta contro il cancro.