Il microclima è l’insieme degli aspetti fisici che caratterizzano l’aria negli ambienti confinati. Un microclima può risultare confortevole o meno sotto diversi aspetti, ad esempio temperatura o umidità. Si parla di benessere termo-igrometrico o comfort termico quando si ha a che fare con la condizione mentale di soddisfazione nei confronti dell’ambiente termico. Tali condizioni rappresentano un importante fattore ergonomico da controllare negli edifici. Tante persone trascorrono molto tempo in edifici chiusi e lamentano spesso disagi riferibili a fattori microclimatici.
Ci sono diversi aspetti da considerare come la temperatura, l’umidità relativa, la temperatura radiante e la velocità dell’aria che si uniscono a diverse variabili soggettive come il metabolismo, l’abbigliamento e le diverse attività svolte. Il primo aspetto fondamentale è il comfort termico globale legato a condizioni di neutralità termica in cui il corpo può attuare la sua risposta fisiologica di termoregolazione. A questo si aggiunge il comfort locale per le diverse parti del corpo, soprattutto in relazione alle diverse attività svolte. Condizioni microclimatiche di malessere possono essere un rischio per la salute e influenzare la sensazione di benessere.
Ci sono diverse variabili che entrano in gioco nel definire il benessere ambientale. Esistono variabili oggettive come la misura della temperatura dell’aria o dell’umidità e variabili più soggettive che possono cambiare da individuo ad individuo. In generale si è potuto constatare che gran parte delle persone non prova sensazioni né di caldo né di freddo con una temperatura ambiente di circa 25°C. Questo però nella condizione di avere un ambiente con aria ferma, non satura e che la persona si trovi una condizione di risposo. In tali condizioni il corpo non attua alcun meccanismo di termoregolazione.
Tra le grandezze oggettive, note anche come variabili termo-igrometriche, troviamo la velocità dell’aria, l’umidità relativa, la temperatura dell’aria e la temperatura media radiante. La temperatura agisce direttamente sulla cute e sui recettori termici mentre le altre variabili sono in grado di variare questa percezione. Tra le variabili soggettive troviamo il metabolismo dell’organismo, l’abbigliamento indossato e l’impegno fisico richiesto nello svolgere le attività. Per valutare il grado di discomfort all’interno degli ambienti di lavoro è necessario determinare con precisione i valori di tutte le grandezze microclimatiche, sia oggettive che soggettive.
Il corpo umano trasforma l’energia chimica degli alimenti in energia termica ed energia meccanica nel processo noto come metabolismo. Al calore prodotto corrisponde un aumento di temperatura fino ad un equilibrio con il calore scambiato con l’ambiente. Questo punto di equilibrio è quello che rappresenta la temperatura corporea di circa 37°C.
Si definisce come temperatura percepita la sensazione di caldo/freddo che viene effettivamente avvertita. Questo è dovuto principalmente alla temperatura dell’aria ma anche ad altre condizioni ambientali come umidità e velocità dell’aria. L’umidità può aumentare la sensazione di caldo poiché rende meno efficace l’evaporazione del sudore, processo per cui il corpo umano si libera del calore in eccesso. La velocità del vento, invece, tende a portare ad un disagio di sensazione di freddo aumentando la velocità con cui il corpo umano disperde il calore.
Il fattore fondamentale è la temperatura media dell’aria che circonda il soggetto. Questa temperatura viene tipicamente misurata con un termometro a bulbo secco ed è infatti nota come temperatura di bulbo secco. Nella misura non si tiene conto dell’umidità ambientale. C’è poi la temperatura media radiante correlata alla quantità di calore trasferito da una superficie, come pareti, pavimento o soffitto. Dipende dalla capacità del materiale di assorbire ed emettere calore e dalla sua emissività, oltre che dal fattore di vista.
È bene precisare che l’insoddisfazione termica può essere anche causata da un disagio termico locale di una parte del corpo. Ad esempio, una corrente fredda a livello del collo può portare a contratture e a disagi più intensi. Nella normativa UNI EN ISO 7730 vengono indicati diversi discomfort locali quali correnti d’aria, differenza verticale di temperatura dell’aria, pavimenti caldi o freddi e asimmetria radiante.
L’umidità è la quantità d’acqua contenuta nell’atmosfera. Tipicamente si parla di umidità relativa (UR o RH), espressa in termini di % rispetto la sua quantità massima, ovvero rispetto la pressione di saturazione. Mentre per la temperatura esistono termo recettori cutanei, l’umidità viene rilevata indirettamente. Condiziona il tasso di evaporazione dell’aria sia a livello cutaneo, influenzandone sia la sudorazione sia l’evaporazione negli alveoli polmonari. Ad alta UR l’evaporazione diventa meno efficace e quindi la perdita di calore diventa più difficile. In ambienti molto secchi invece si possono avere problemi alle mucose, sensazioni di secchezza e prurito.
Il livello raccomandato è nell’intervallo 30-60% negli edifici climatizzati ma a seconda del modello e degli standard applicati questi valori possono variare dipendendo anche dagli altri fattori coinvolti. Per misurare il disagio legato a condizioni ambientali calde e umide si possono impiegare l’indice di calore oppure l’indice humidex. Entrambi però si limitano a prendere un fattore correttivo esercitato dalla sola umidità relativa e quindi non possono essere considerati indicatori assoluti della temperatura percepita.
Il tasso metabolico è un parametro fondamentale per stimare il comfort termico. Può essere calcolato con metodi diretti, ad esempio misurando il consumo di ossigeno, oppure calcolato in modo indiretto tramite apposite tabelle di riferimento. Distinguiamo due componenti fondamentali: metabolismo basale e attività svolta. Il metabolismo base è dovuto al semplice dispendio energetico in condizioni di riposo dovuto al mantenimento delle funzioni vitali come movimenti respiratori, circolazione e mantenimento della temperatura corporea intorno ai 37°C. A questo si aggiunge il dispendo energetico in relazione all’attività svolta. Come unità di misura del metabolismo viene impiegato il “met” equivalente al dispendio energetico medio di una persona a riposo, ovvero 58 W/m2. Oltre questi valori bisogna anche stimare l’isolamento termico offerto dal vestiario.
La termorecezione, o sensibilità termica dell’essere umano, è la capacità di percepire delle differenze di temperatura dovute al flusso di calore. I dettagli sul funzionamento dei termocettori non sono ancora completamente noti. Un ruolo importante sicuramente è svolto dai canali TRP (transient receptor potential channels) per le sensazioni di caldo, freddo e del dolore. Nell’essere umano le vie del senso termico sono in parte in comune con le vie nocicettive. I recettori sono principalmente sensibili a cambiamenti repentini della temperatura.
Si dividono principalmente in due categorie: recettori per il caldo e recettori per il freddo. Queste due categorie operano in range di temperature diverse. Le fibre per il freddo operano da 5°C a 36°C mentre quelle per il caldo da 36°C a 45°C, sopra i quali c’è danno cellulare. La sensibilità termica, così come la maggior parte delle sensibilità umane, ha una sua capacità di adattamento. La stessa superficie cutanea presenta delle escursioni di temperatura, dovute all’ambiente esterno, alla termoregolazione, all’attività e al flusso sanguigno.
Gli esseri umani vivono tipicamente in ambienti in cui la temperatura è inferiore alla temperatura corporea. Al loro interno generano continuamente calore che aiuta a mantenere costante la temperatura. Il bilancio tra il calore prodotto e quello disperso è fondamentale per mantenere l’equilibrio termico, così da garantire l’omeostasi dell’organismo e il corretto funzionamento cellulare. L’eccessivo riscaldamento è però più grave dell’eccessivo raffreddamento. Una temperatura eccessiva causa malfunzionamento nervoso e denaturazione irreversibile delle proteine e la maggior parte degli individui rischia le convulsioni quando la temperatura interna supera i 41°C fino ai 43°C considerati il limite compatibile con la vita. Al contrario, la maggior parte dei tessuti può sopravvivere se esposto temporaneamente a temperature molto basse.
Il centro della termoregolazione corporea si trova nell’ipotalamo e regola l’equilibrio termico ogni qual volta che si modificano le condizioni climatiche esterne mantenendo una temperatura corporea media di 36,7°C e una temperatura corporea centrale costante a 37,8°C. Il calore che l’organismo dovrà cedere all’ambiente dipende però dall’attiva svolta. La cessione avviene tramite svariati fenomeni quali la convezione, l’irraggiamento e l’evaporazione ai quali si aggiungono, seppur con minore importanza, la conduzione e la respirazione.
Lo scambio termico per convezione non è altro che la cessione di calore all’aria che circonda il corpo. In prossimità della superficie corporea l’aria sarà più calda e, a causa della differente densità, si ottiene un effetto convettivo con l’aria calda che tende a salire e viene sostituita da aria più fredda. Lo scambio per radiazione si attua tra la superficie corporea e le superfici circostanti. Dipende dalle dimensioni delle superfici e dal loro potere emissivo. Può esserci cessione di potenza termica per irraggiamento dal corpo all’ambiente se la temperatura è molto bassa, ad esempio con le vetrate. Tipicamente però lo scambio per irraggiamento è al contrario, ovvero quando le superfici circostanti sono a temperature superiori come caminetti, stufe e materiali caldi.
Lo scambio termico per evaporazione rappresenta il meccanismo più efficiente del corpo per dissipare energia termica e mantenere l’equilibrio. Il processo di dissipazione è dovuto alla sottrazione di calore del liquido che evapora dall’epidermide. Normalmente l’evaporazione incide circa il 25% sulla perdita di calore totale ma aumenta notevolmente in caso di attività fisica. Affinché possa esserci evaporazione del sudore, la temperatura della superficie corporea deve essere superiore alla temperatura alla quale l’aria dell’ambiente diventa satura di vapore. Al contrario, se la temperatura cutanea è inferiore a quella dell’aria ci sarà il fenomeno opposto di condensazione del vapor d’acqua.
C’è anche lo scambio per conduzione ma ha una scarsa rilevanza nel bilancio energetico del corpo umano. Una piccola cessione di calore viene effettuata anche tramite la respirazione poiché la temperatura dell’aria respirata è più bassa di quella all’interno dell’organismo. Possiamo quindi dire che il metabolismo deve bilanciare le perdite di calore.
Si differenziano le risposte per climi più caldi o più freddi. La risposta al caldo dell’organismo è probabilmente indotta direttamente sul sistema nervoso autonomo portando ad un aumento diretto della frequenza cardiaca. Inoltre, è caratterizzata da una forte vasodilatazione che permette un maggior afflusso di sangue al distretto cutaneo. Questo viene fatto variando le resistenze periferiche arteriolari e aumentando la gittata cardiaca, c’è quindi una redistribuzione del flusso ematico dal distretto splacnico e quello renale. Mentre la pressione viene mantenuta costante, la gittata aumenta per un aumento della frequenza cardiaca. La risposta al freddo, invece, è caratterizzata da una riduzione del flusso ematico dagli strati superficiali del derma e dalla presenza di brividi. Sul sistema cardiovascolare ancora non sono chiari gli effetti ma diverse evidenze mostrano che c’è un aumento della pressione, noto come ipertensione da freddo.
Relazionando il funzionamento del corpo umano e la sensazione di benessere termo-igrometrico si è arrivati a degli indici di livello di comfort evidenziati in diverse normative. I modelli più utilizzati per valutare il comfort termico sono il modello di Fanger e il modello adattivo. Il primo è stato sviluppato intorno gli anni 60 ed è lo standard principale a cui si rifanno le norme. Deriva da studi di laboratorio e dalla ricerca sul bilancio termico dell’uomo, viene tipicamente utilizzato per la progettazione del condizionamento meccanico. Il modello adattivo invece è più recente e si rifà a studi statistici condotti in edifici reali. Si basa sull’idea che il clima esterno influenzi il comfort interno poiché gli esseri umani sono capaci di adattarsi diversamente alle temperature a seconda dei periodi dell’anno.
All’adattamento fisiologico e alla termoregolazione si aggiungono sia l’adattamento psicologico che quello comportamentale. Diversi fattori psicologici possono influenzare il comfort termico, i più importanti sono il senso di controllo sulla temperatura, la conoscenza di temperatura ed umidità e l’aspetto dell’ambiente. Questi fattori hanno evidenziato grandi differenze tra i test previsti in laboratorio e il comfort riportato dalle persone. L’adattamento comportamentale è dato da tutte le azioni che le persone prendono per mantenersi a proprio agio quanto sentono condizioni interne di discomfort. Tra questi rientrano diverse strategie, dall’apertura di finestre, al cambio del vestiario, all’attivazione dei sistemi di condizionamento, qualora sia possibile. Diverse evidenze mostrano anche come alcune persone si adattano al caldo stagionale diventando più notturne, spostando attività fisica o addirittura il lavoro nella notte.
Negli ambienti moderati per valutare lo scostamento dalle condizioni ideali di benessere si utilizzano diversi indici. Il più utilizzato è il PMV (predicted mean vote) proposto da Fanger e utilizzato nella normativa UNI EN ISO 7730. Si tratta di una funzione matematica che restituisce un risultato numerico su una scala con range da -3 (troppo freddo) a +3 (troppo caldo) con il benessere termico a 0. Tiene conto delle variabili soggettive e di quelle ambientali ma fa riferimento ad un gruppo di individui, quindi, potrebbe non essere significativo per il singolo.
Un altro indice è il PPD (percentage of person dissatisfied) che esprime in percentuale il numero di persone insoddisfatte in un certo ambiente. Partendo dall’equazione di bilancio energetico
La tutela del benessere coinvolge, in primo luogo, aspetti di tipo ergonomico che quindi influiscono sul benessere psicofisico. Le condizioni microclimatiche rappresentano uno dei primi fattori ergonomici e diverse evidenze mostrano come le condizioni di comfort termo-igrometrico influenzano la performance lavorativa. Diversi risultati confermano che a seconda del tipo di attività svolta, della durata dell’esposizione e dell’intensità dello stress termico l’impatto può essere nettamente diverso.
Lo stress termico può essere dato sia da un eccesso che da un’insufficienza di condizioni termica, inoltre, il freddo o il caldo estremo possono essere fatali. Questo è attribuibile alla dipendenza termica delle biomolecole su cui si basa la vita. Stress termici hanno effetti negativi sulla sensibilità e sull’elaborazione delle informazioni da parte dell’essere umano così come sulle capacità psicomotorie. L’impatto maggiore è sulla percezione seguito dalla risposta psicomotoria mentre l’effetto minore è quello sui compiti cognitivi. Effetti negativi per il caldo si manifestano mediamente sopra i 29°C mentre per il freddo sono molto evidenti sotto gli 11°C. L’effetto deleterio del calore sulla percezione è dato da una riduzione dell’accuratezza della risposta e un aumento del tempo medio di risposta.
Per i compiti cognitivi si riduce l’accuratezza della risposta mentre il tempo di risposta rimane quasi invariato. Per quanto riguarda i compiti psicomotori l’effetto è strategico in quando viene ridotta l’accuratezza psicomotoria ma c’è una facilitazione del tempo di risposta. Tuttavia, per dichiarare negativo o positivo questo tipo di effetto bisogna considerare il tipo di attività svolta. Anche per lo stress da freddo ci sono diversi effetti diffusi ma meno evidenti. C’è un notevole decremento sulla velocità cognitiva e sull’accuratezza della percezione, tuttavia, c’è un incremento della velocità per i compiti cognitivi.
Il modello di Hancock e Warm che relaziona la risposta fisiologica, la performance e lo stress termico pone una zona centrale di plateau dove la risposta fisiologia compensa molto bene lo stress termico e le prestazioni rimangono notevolmente stabili. Muovendoci verso gli estremi (caldo o freddo) sono presenti zone di evidente fallimento caratterizzate da un improvviso decremento della performance. È bene notare che il livello di comfort fallisce ad una soglia di stress molto più bassa rispetto a dove può arrivare il fallimento fisiologico vero e proprio.
I rischi maggiori sono dati da ambienti estremamente caldi ed umidi con scarsa ventilazione. L’ipertermia (aumento sostenuto della temperatura corporea centrale) e diverse malattie causate dallo sforzo da calore vengono sempre più riconosciute come un importante problema di salute sul lavoro. Queste situazioni vengono peggiorate anche dalla crisi climatica e dalle frequenti ondate di caldo. Tali condizioni possono essere anche peggiorate da una produzione di calore eccessiva dovuta ad attività intense o da un abbigliamento pesante che aggiunge ulteriore stress termico.
Tutte le linee guida prevedono che la temperatura corporea rimanga sotto i 38°C così da evitare i rischi di malattia. A seconda della normativa applicata le temperature limite possono variare e si classificano diversi livelli di rischio a seconda del range di temperatura. Questo, tuttavia, presenta dei limiti in quanto non vengono prese in considerazione l’umidità e la ventilazione e sottostima lo stress dovuto ad una attiva dissipazione termica o da un’eccessiva produzione di calore metabolico.
L’uomo, inoltre, risponde fortemente con una regolazione della temperatura per contrastare la perdita di calore in ambienti freddi. Oltre alla risposta fisiologia iniziale volta a ridurre la dissipazione periferica di calore con un’esposizione prolungata il corpo tenta di prevenire ulteriori perdite di calore con i brividi, contrazioni muscolari che convertono l’energia metabolica in energia termica. Questo induce un maggior consumo di energie che può ridurre la tolleranza al lavoro o indurre forti disagi cognitivi riducendo anche le abilità manuali e la coordinazione motoria.