Coronavirus e immunità: quanto tempo sopravvivono gli anticorpi contro il Covid-19?
Aver contratto il Covid-19 potrebbe non portare a sviluppare una memoria del virus e con questa un’immunità duratura nel tempo. Sono questi i risultati a cui sono giunti i ricercatori cinesi che con le loro indagini hanno cercato di dare una risposta alla seguente domanda: quanto tempo sopravvivono gli anticorpi contro il Covid-19? Lo studio in questione, pubblicato su Nature Medicine, attesta che gli anticorpi contro il Covid-19 potrebbero durare solamente dai due ai tre mesi e potrebbero essere differenti tra chi ha contratto il virus con tutta la sintomatologia connessa e chi invece è risultato asintomatico.
Lo studio sulla durata degli anticorpi contro il Covid-19
Lo studio è stato condotto nel distretto di Wanzhou dal team di ricerca della Chongqing Medical University. I ricercatori hanno analizzato e confrontato nei due mesi successivi alla dimissione ospedaliera gli anticorpi di 37 pazienti affetti da coronavirus che hanno manifestato rilevanti sintomi clinici con quelli di altrettanti soggetti asintomatici. Per capire i risultati a cui sono giunti bisogna però prima comprendere come reagisce il nostro corpo quando entra in contatto con un virus.
La risposta immunitaria del corpo umano
Il nostro sistema immunitario reagisce a un agente patogeno instaurando due tipologie di risposte: la risposta immunitaria innata, che si manifesta immediatamente dopo l’attacco dell’agente infettivo, e la risposta immunitaria adattiva, che interviene in un secondo momento.
La risposta immunitaria innata
Si tratta di una reazione non specifica che prevede diversi meccanismi di difesa che entrano in funzione allo stesso modo contro qualunque agente estraneo riconosciuto come nocivo. Di questa tipologia di difesa immunitaria fanno parte alcuni leucociti, come i basofili, i neutrofili e macrofagi, e le citochine, importanti messaggeri chimici che hanno il compito di modulare la reazione di difesa e di consolidare la memoria immunitaria.
In alcuni individui la risposta immunitaria innata può essere tanto efficiente da riuscire a contrastare il manifestarsi dei sintomi propri dell’infezione, esattamente come avviene per chi contrae il Covid-19 ma risulta asintomatico.
La risposta immunitaria adattiva
Questa seconda fase della risposta immunitaria viene definita adattiva poiché agisce in funzione del patogeno che si trova a dover contrastare, mettendo in atto una risposta specifica per l’antigene da combattere. È in questo momento che entrano in gioco gli anticorpi, anche chiamati immunoglobuline, che si legano al virus impedendogli di entrare in contatto con le cellule. Le due principali tipologie di anticorpi sono le Immunoglobuline M (IgM), che si sviluppano per prime e forniscono una protezione a breve termine, e le Immunoglobuline G (IgG), che vengono prodotte dopo circa due-tre settimane e provvedono alla protezione a lungo termine. Il nostro corpo mantiene infatti memoria delle differenti IgG prodotte per combattere un antigene ed è quindi in grado di prevenire un’infezione ad opera dello stesso patogeno ricreando le stesse IgG.
I risultati della ricerca: l’immunità al Coronavirus
I ricercatori hanno scoperto che il livello di IgG è significativamente più basso nei pazienti asintomatici rispetto a quelli sintomatici. Ben il 40% dei soggetti asintomatici sono risultati sieronegativi entro due mesi, contro quasi il 13% di chi aveva sviluppato i sintomi del Covid-19. È stata anche osservata una notevole differenza nei livelli di 18 citochine pro e anti-infiammatorie, più bassi in chi non ha sviluppato sintomi.
Nei soggetti asintomatici si verifica quindi una risposta immunitaria più debole rispetto a quanto succede nei pazienti sintomatici. Un livello più basso di IgG e di citochine comporta che si possa fare poco affidamento alla creazione di una memoria immunitaria in grado di proteggere chi ha contratto il Covid-19 da infezioni future. Gli studiosi ritengono particolarmente rischioso contare sul cosiddetto passaporto immunitario. Ennio Tasciotti, specialista in nanomedicina e tecnologie biomedicali, riassume così i risultati ottenuti finora: “Per quanto ne sappiamo oggi dopo lo studio pubblicato su Nature Medicine il 18 giugno, le persone che presumono di essere immuni a una seconda infezione perché hanno ricevuto un risultato positivo del test potrebbero essere a rischio tanto quanto quelle che non sono mai venute in contatto con il virus”.
Non si tratta di risultati definitivi: i ricercatori stessi ammettono la necessità urgente di continuare le ricerche analizzando campioni più consistenti di pazienti per poter comprendere in via definitiva quanto tempo sopravvivono gli anticorpi sviluppati contro il Covid-19 e, grazie a questo dato, in attesa di un vaccino, prendere in tutta sicurezza eventuali decisioni sull’allentamento delle misure di contenimento e dell’utilizzo di dispositivi di protezione individuali.