Pulsossimetria come misura indiretta della frequenza cardiaca
Sarà capitato a tutti di vedere un film o una serie TV in cui qualcuno viene ricoverato in ospedale. Soprattutto nelle pellicole americane, la scena è più o meno questa: paziente sdraiato a letto e circondato da schermi e apparecchi vari, magari il tutto accompagnato da fiori e palloncini. Su uno schermo si può vedere un tracciato verde su sfondo nero che ci informa sulla salute del cuore del paziente.
Non tutti, però, avranno fatto caso che il più delle volte il paziente non ha nessun elettrodo per l’ECG tradizionale addosso.
Facendo più attenzione, potremmo notare un “cappuccetto” su un dito, probabilmente l’indice. In realtà, in alternativa al dito, in base alle esigenze il sensore può essere posizionato anche sull’orecchio oppure, per i neonati, sul palmo della mano, sul polso o sul piede.
Il pulsossimetro: cos’è e come funziona
Ad ogni modo, siamo di fronte ad un pulsossimetro, un dispositivo medico che ci permette di valutare la saturazione di ossigeno nel sangue. Ciò significa che con questo dispositivo siamo in grado di conoscere la percentuale di emoglobina satura di ossigeno (ovvero legata all’ossigeno), rispetto a tutta l’emoglobina presente nel sangue.
Prima di vedere come questo dispositivo effettui la misura della frequenza cardiaca, cerchiamo di capire il suo funzionamento principale. Per fare ciò, dobbiamo fare un passo indietro e ripartire dalla respirazione.
Questa è una funzione vitale che permette lo scambio di gas tra l’aria dell’ambiente esterno e il sangue.
Un componente fondamentale dell’aria è l’ossigeno, che viene inalato attraverso il naso o la bocca, passa nella laringe, nella trachea e infine, attraverso i bronchi e bronchioli, che terminano con un “grappolo”, detto infundibulo, costituito da una serie di alveoli polmonari. Il polmone, infatti, è costituito da questa fitta rete di alveoli; ogni alveolo è costituito solo da un sottile strato di epitelio, per permettere gli scambi gassosi. Ciò è possibile perché intorno agli alveoli sono presenti numerosi capillari sanguigni ed è proprio a questa interfaccia che l’ossigeno entra in contatto con il sangue, nel quale è presente o fisicamente dissolto nel plasma o chimicamente legato all’emoglobina. Ogni molecola di emoglobina (Hb) può legarsi a quattro molecole di ossigeno a formare la ossiemoglobina (HbO2).
Grazie alla Legge di Henry sappiamo che il volume di gas che si dissolve in un dato volume di liquido a una temperatura costante è direttamente proporzionale alla pressione del sangue.
Una volta che il gas entra in contatto con il liquido, parte del gas si dissolve nel liquido fino a che la pressione parziale del gas nell’ambiente e quella del gas nel liquido si eguagliano.
La quantità di ossigeno fisicamente trasferita dal sangue è direttamente proporzionale alla pressione parziale dell’ossigeno presente nel sangue, espressa in mmHg o kPa e indicata come PaO2 per il sangue arterioso e PvO2 in quello venoso.
La saturazione di ossigeno nel sangue valuta la quantità di ossigeno trasferita attraverso i legami chimici (che è circa 70 volte di più rispetto alla quantità fisicamente dissolta nel plasma) e viene indicata come SaO2 nel sangue arterioso e SvO2 in quello venoso.
Il nostro pulsossimetro permette una misura non invasiva della saturazione periferica (SpO2) e si basa sul concetto di assorbanza.
Immaginate di avere un bicchiere contenente una bibita gassata a vostra scelta e di illuminare il bicchiere con una torcia che abbia un fascio di luce ben direzionato (la torcia del vostro telefono, ad esempio). La bibita assorbirà una certa quantità di luce, cosicché voi vedrete emergere dal bicchiere una quantità di luce inferiore rispetto a quella incidente. L’assorbanza è una grandezza fisica che ci permette di quantificare l’entità di questo assorbimento (che naturalmente dipende dalla concentrazione delle molecole che formano la soluzione).
Nel caso della saturazione del sangue (e in questo caso il dispositivo sarà un saturimetro), dovremmo tenere in considerazione che andremo a misurare la quantità di sangue ossigenato rispetto alla quantità di sangue totale e che essi reagiscono a due lunghezze d’onda diverse. Quindi avremo bisogno di due LED, uno per l’emoglobina legata all’ossigeno (luce rossa, 660 nm) e l’altro per tutti i corpuscoli presenti all’interno del sangue (infrarosso, 950nm). In teoria avremmo bisogno di una luce monocromatica, ovvero una luce composta da una sola lunghezza d’onda (come un laser).
Il LED non riesce a creare una luce monocromatica, però emette luce con un intervallo di lunghezze d’onda abbastanza ristretto da farci ottenere un risultato buono e inoltre è poco costoso.
Si usa un dito perché è ben irrorato dai capillari: il fotodiodo raccoglie (e quindi misura) l’intensità della luce che resta dopo essere passata nel dito.
Dato che questo è un tessuto non-omogeneo, abbiamo una significativa dispersione della luce. Inoltre dobbiamo considerare che l’assorbanza è diversa per ogni paziente e che il volume di sangue presente all’interno dei capillari varia a causa della natura pulsatile del flusso sanguigno. Perciò andremo a considerare non un numero univoco per la misura della saturazione, ma un intervallo di valori, che considera un minimo e un massimo rispetto a un singolo battito cardiaco (approssimato a un secondo).
Il battito cardiaco assicura la pressione sanguigna e il flusso del sangue. Durante ogni sistole (contrazione del miocardio) il cuore pompa una certa quantità di sangue nell’aorta (circa 60-100mL a battito) a una pressione di circa 10kPa (equivalenti a 75 mmHg); al battito successivo il nuovo volume espulso dal cuore verso l’aorta fornisce energia cinetica al volume precedente, le pareti dell’aorta si espandono, mantenendo l’energia potenziale e aumentando la pressione.
All’inizio della diastole (rilassamento del miocardio), il sangue si ferma nell’aorta per un pochino, ma riprende a muoversi quando viene spinto dall’energia potenziale immagazzinata nelle pareti elastiche dell’aorta.
Quindi, da una parte il nuovo volume spinge il sangue dalle arterie al resto della circolazione, dall’altra crea un’onda di pressione.
Per la misura della frequenza cardiaca possiamo considerare un solo LED, ovvero quello a 950nm, cosicché sia sensibile solo alla variazione di volume di sangue e non alla presenza o meno dell’ossigeno. Questo LED sarà il nostro “trasmettitore” e il fotodiodo sarà il “ricevente”.
Nella figura si possono notare le due configurazioni possibili: nella prima si utilizza la riflessione della luce, nella seconda la trasmissione. Quando il volume di sangue aumenta durante la sistole, viene assorbita più luce e quindi sul fotodiodo verranno raccolti meno raggi; durante la diastole avviene il contrario.
La registrazione dell’onda pulsatile creata dall’attività cardiaca può essere usata sia per investigare la perfusione periferica sia per analizzare gli effetti di alcuni farmaci.
Ricapitolando, durante il ciclo cardiaco l’onda pressoria che si viene a creare espande le pareti dell’arteria per un certo intervallo di tempo e questo può essere sentito come un impulso relativo ad un battito.
Quando la pressione sanguigna cambia in relazione all’attività cardiaca, il volume presente nei capillari cambia e ciò causa una variazione nell’assorbimento, nella riflessione e nella dispersione della luce incidente.
Dato che la velocità di propagazione dell’onda pulsatile (detta onda pletismografica) è correlata alla resistenza elastica e alla dilatabilità delle pareti, misurare la velocità dell’onda è diventato un metodo frequentemente usato per investigare le proprietà elastiche delle arterie. Ad esempio, uno dei modi in cui il fumo danneggia il corpo umano è ridurre l’elasticità delle pareti venose, creando problemi alla circolazione.
Oltre a questo, l’onda pletismografica si modifica in presenza di cambiamenti emodinamici e di pressione e di anormalità valvolari, permettendoci quindi una più ampia valutazione sullo stato di salute del cuore.