Uno degli aspetti più centrali e interessanti nella ricerca relativa al virus SARS-CoV-2 è la comprensione delle alterazioni indotte sul cervello. In particolare, la comunità medica e scientifica sta cercando di capirne gli effetti sul lungo termine nei casi lievi e moderati. Proprio qui si inserisce uno studio pubblicato su Nature nel 2022, condotto da diversi dipartimenti dell’Università di Oxford. La ricerca, basata sull’uso delle immagini mediche, ha portato ad interessanti scoperte, ma anche a molti punti interrogativi.
Sin dall’emergere della pandemia da SARS-CoV-2 molti studi sono stati condotti per capirne gli effetti a livello cerebrale. Sintomi comuni, come la perdita di olfatto e gusto, lo stato di annebbiamento e confusione riportato da molteplici pazienti, hanno fatto intuire che il cervello è uno degli organi interessati nell’infezione. Diverse ricerche hanno usato tecniche di imaging, come MRI ed EEG, e analisi di fluidi spinali al fine di capire l’azione del virus e poterne curare gli effetti.
Nel tempo sono stati raccolti casi da tutto il mondo, con una grandissima varietà di effetti che il virus può provocare sul cervello. Si va da sintomi più lievi per quanto fastidiosi, come la perdita di gusto e olfatto, mal di testa e fatica nel concentrarsi, a casi più estremi, in cui il paziente può incorrere in infarti e problemi ai nervi periferici. Sono state individuate molteplici teorie circa le modalità con cui il virus intaccherebbe il cervello, ma gli studi da condurre sono ancora oggi tanti.
Le problematiche in atto nella ricerca sono molteplici. Il campo di indagine è estremamente complesso e richiede molto tempo. A questo si aggiunge la difficoltà nel corso di un’epidemia globale di raccogliere dati da analizzare, ostacolo alle cure mediche tempestive richieste dal caso. Nonostante le limitazioni, gli studi nel campo hanno permesso di avanzare ipotesi che spiegherebbero i meccanismi con cui il virus riesce ad intaccare e danneggiare il cervello.
Uno dei meccanismi più accreditati riguarda la capacità del virus di entrare nel cervello provocando un’infezione acuta e rapida, e il successivo danneggiamento delle cellule cerebrali. Casi riportati in Cina, Giappone e USA hanno rivelato la presenza di materiale genetico di SARS-CoV-2 nei fluidi spinali e di particelle virali all’interno di cellule cerebrali. Quello che si ritiene possibile è la capacità del virus di intaccare il cervello entrando nel flusso sanguigno o tramite le estremità nervose.
La maggior parte degli studi ad oggi compiuti si sono concentrati sui casi di infezione severa, lasciando aperta l’investigazione nelle infezioni lievi e moderate, cioè quelle che non portano a ospedalizzazione. Lo studio pubblicato su Nature si concentra proprio sulle situazioni più moderate, cercando di capire quali siano i meccanismi alla base del long COVID, cioè il persistere di una condizione di ridotte capacità cerebrali presenti anche vari mesi dopo l’infezione.
Per condurre questo studio, gli scienziati di Oxford hanno utilizzato dati provenienti dall’UK Biobank, un database biomedicale contenente informazioni sulla genetica e le condizioni di salute di oltre 500 mila persone residenti nel Regno Unito. Sono stati coinvolti 785 soggetti tra i 51 e gli 81 anni di età, sottoposti a distanza di tre anni a scansioni cerebrali con risonanza magnetica e a esami cognitivi. Di questi partecipanti, 401 sono risultati positivi al SARS-CoV-2 tra le due fasi di test.
Lo studio, avvalendosi per la prima volta di immagini di risonanza pre e post infezione, ha permesso di evidenziare profonde alterazioni sul cervello. In particolare, le scansioni hanno rivelato una riduzione dello spessore della materia grigia nel giro paraippocampale, una regione legata alla codifica e recupero della memoria, e nella corteccia orbitofrontale, un’area connessa ai processi decisionali e associata al senso dell’olfatto. La riduzione nella materia grigia si aggira in un intervallo tra lo 0.2 e il 2%, una perdita paragonabile ad un invecchiamento dei tessuti cerebrali tra 1 e 6 anni in condizioni normali.
Le scansioni hanno rivelato anche ulteriori scoperte. I pazienti andati incontro ad infezione mostravano danneggiamenti nei tessuti relativi alla corteccia olfattiva primaria, oltre ad una riduzione complessiva della dimensione del cervello. I test cognitivi nei soggetti post infezione hanno evidenziato, inoltre, un decadimento delle funzioni cognitive, con un peggioramento delle capacità di attenzione e flessibilità mentale. Gli scienziati hanno legato questo risultato all’atrofizzazione del cervelletto, convolto nei meccanismi di attenzione e memorizzazione.
Lo studio britannico ha permesso un’analisi su larga scala degli effetti di SARS-CoV-2 sul nostro cervello anche nei casi di infezione lieve e moderata. Sebbene ancora oggi non esistano certezze su gran parte degli aspetti toccati dalla ricerca, le scoperte messe in luce dai test permettono di scavare più a fondo e di formulare nuove ipotesi e domande. In primo luogo, non è detto che chiunque vada incontro ad un’infezione da SARS-CoV-2 sperimenti gli stessi cambiamenti cerebrali.
Le dinamiche stesse dei cambiamenti non sono note. Gli scienziati attualmente non sanno dire se questi mutamenti siano, una volta verificatisi, destinati a peggiorare nel tempo, se siano prevenibili o destinati a rientrare, ripristinando la normalità in termini di funzionalità. Un’altra possibilità è che le modifiche non siano strettamente legate al virus, ma dal naturale progresso di patologie che aumentano a monte il rischio di infezione.
Per quanto importante, i limiti dello studio sono molteplici e aprono la pista a molti altri a seguire. La ricerca ha considerato un campione di popolazione al di sopra dei 50 anni, rivelando un peggioramento delle funzioni cognitive proporzionale all’età: i pazienti più anziani hanno mostrato cambiamenti più pronunciati. Non è detto quindi che la ricerca sia applicabile a soggetti più giovani e ai bambini. Lo studio non tiene conto del tipo di variante virale. Inoltre, viste le tempistiche dello studio, cioè con pazienti infetti prima dell’inizio delle campagne vaccinali, non si sa ancora se i vaccini potrebbero ridurre questi cambiamenti.
La ricerca britannica, quindi, getta buone basi di studio, ma, come espresso da vari esperti, è necessario ridurre l’enfasi e le preoccupazioni e ricercare ulteriormente. In particolare, il dottore Alan Carson, professore di neuropsichiatria presso il Center for Clinical Brain Sciences all’università di Edimburgo, invita a non allarmarsi circa le scoperte, che potrebbero essere legate a semplici cambiamenti dell’esperienza, e ad approfondire ulteriormente lo studio e a non utilizzare con leggerezza termini quali “neurodegenerazione”.