Covid-19

Covid19: cosa significa essere debolmente positivi? Sono contagiosi?

Leggendo i quotidiani bollettini sull’andamento del Covid19 in Italia, ti sarà capitato di trovare una nuova categoria di soggetti, i debolmente positivi, il cui numero viene indicato distinto dai positivi o asintomatici ma, cosa significa davvero essere debolmente positivo e, soprattutto, sono in grado di trasmettere il virus?

Solitamente, i soggetti debolmente positivi sono persone asintomatiche dal principio o divenute in un secondo momento, il cui tampone dà esito positivo ma differiscono dai “classici positivi perché il risultato arriva in seguito a tanti cicli di amplificazione nella RT-PCR real-time.

RT-PCR real-time per scovare il Covid19

Dal tampone naso-faringeo alle repliche di RNA virale del Covid19

Da un punto di vista tecnico: “I tamponi debolmente positivi sono quelli che presentano meno di 5.000 copie di Rna virale per millilitro mentre nei tamponi di inizio epidemia si trovavano milioni di copie del virus ha spiegato il virologo Francesco Broccolo dell’Università di Milano-Bicocca.

Quando si effettua il tampone naso-faringeo per il Covid19, viene prelevato un certo quantitativo di materiale biologico che conterrà cellule e altre sostanze organiche ma, l’obiettivo dell’indagine è l’RNA virale perché ricordiamo il coronavirus è un virus a RNA, ovvero utilizza il proprio codice genetico per prendere il controllo e “riprogrammare” le cellule, trasformandole in fabbriche di virus.

Per isolare i frammenti di RNA, il campione viene sottoposto a degradazione meccanica per rompere le strutture esterne come la membrana cellulare e a degradazione enzimatica ma, va sottolineato che il prodotto è un mix tra RNA del soggetto e del virus, la cui presenza è valutata attraverso la RT-PCR real-time (Retro-transcription polymerase chain reaction).

Infatti, questa procedura amplifica una parte specifica dell’acido nucleico virale centinaia di migliaia di volte, permettendo di individuarlo facilmente al posto di cercare una minuscola quantità di virus tra milioni di filamenti di informazioni genetiche.

Il processo di amplificazione

Schematizzazione tecnica di RT-PCR per indivuare RNA virale Covid19

Nello specifico, la prima fase consiste nel trasformare il mono-filamento di RNA in una struttura a doppio filamento ibrido (RNA-DNA) che prenderà il nome di DNA complementare (cDNA) e ciò avviene spontaneamente grazie ai nucleotidi (elemento base che costituisce gli acidi nucleici) sparsi nella soluzione che si accoppieranno seguendo il meccanismo enunciato da Watson e Crick, ovvero adenina-uracile e guanina-citosina.

Una volta ottenuto il doppio filamento inizia la vera e propria amplificazione, caratterizzata da una periodica variazione di temperatura per le diversi fasi:

  • Denaturazione del cDNA: i 2 filamenti vengono separati e svolgeranno la funzione di nuovi stampi;
  • Annealing: un aumento di T, favorisce l’appaiamento delle basi azotate sparse nella soluzione con i due filamenti precedentemente separati, ottenendo 2 doppie catene chiuse;
  • Termine di un ciclo di amplificazione e pronto per il successivo.

Alla fine, dopo soli 30 cicli sono stati ottenuti milioni di copie della sequenza di partenza che possono essere facilmente studiate. Inoltre, l’aspetto real-time è legato al fatto che dopo ogni ciclo di amplificazione è possibile monitorare la quantità prodotta grazie a dei marker fluorescenti che vengono inseriti durante il processo.

I debolmente positivi sono contagiosi?

Dunque, sorge spontaneo chiedersi se i debolmente positivi siano in grado di trasmettere il Covid19 perché, potenzialmente, nel soggetto ci possono essere solo tracce del genoma e quindi non esserci più il virus oppure ci può essere un virus a bassa carica non contagioso, o ancora, un virus a bassa carica che infetterebbe ancora.

Infatti, va sottolineato che avere una bassa carica virale equivale ad avere una minore dose infettiva, dunque il rischio di contagio è più basso ma non si può dire che sia pari a zero.

Per saperlo con certezza, l’ospedale San Matteo di Pavia ha messo a punto un test che lo può definire: si tratta di eseguire un esame di laboratorio supplementare e mettere in coltura il materiale proveniente dal tampone di un sospetto positivo e vedere se si replica (e quindi ha capacità infettiva): lo studio condotto su 280 pazienti clinicamente guariti ma con cariche virali basse ha fatto emergere che meno del 3% aveva la capacità di infettare.

Published by
Margherita de Respinis