Le forme più gravi di depressione, come il cosiddetto disturbo depressivo maggiore, sono un fattore di rischio noto per una serie di malattie, soprattutto quelle che si associano all’invecchiamento, come le malattie del cuore, il diabete, l’Alzheimer, ecc. Tuttavia, il meccanismo che lega la depressione con queste altre malattie è poco chiaro anche se una delle idee di base è che la depressione potrebbe attivare un meccanismo di invecchiamento precoce. Ci sono molti modi per “misurare” l’invecchiamento delle cellule e dei tessuti, e quindi di un organismo: uno di questi è basato sullo studio della metilazione del DNA.
Il DNA è la molecola (contenuta in quasi tutte le cellule del corpo umano) che contiene il nostro codice genetico, ovvero le “istruzioni” (i geni) per mantenere e far funzionare l’organismo. Un compito così complesso è ovviamente soggetto ad una miriade di regolazioni precise: in pratica è necessario controllare quando un gene può essere attivato e quando deve essere spento. Uno dei meccanismi per fare questo è la metilazione del DNA, ovvero l’aggiunta di diverse copie di una piccola molecola (molto simile ad una molecola di gas metano) in corrispondenza di diversi geni del DNA.
Nel DNA ci sono una serie di geni il cui grado di metilazione si modifica con il passare del tempo e quindi possono essere, in qualche modo, usati come un orologio interno che indica quanto tempo è passato per quell’organismo. Un nuovo studio ha usato un algoritmo che si basava sul grado di metilazione di questi geni per stimare l’età biologica di una persona e capire anche la restante aspettativa di vita. In questo studio sono stati confrontati circa 50 soggetti affetti da depressione maggiore, ma per il resto apparentemente sani ovvero senza altre malattie evidenti, con circa 60 soggetti di pari età e di simili condizioni di salute generale ma senza depressione.
Prendendo semplicemente dei campioni di sangue, quindi con un metodo poco invasivo e di facile applicazione, gli studiosi hanno calcolato l’età biologica basandosi su questo algoritmo. Il risultato è stato che i pazienti affetti da depressione maggiore avevano uno “schema” di metilazione del DNA che sembrava indicare un invecchiamento di circa 2 anni in più rispetto alla loro età e rispetto anche ai soggetti sani di pari età arruolati nello studio come controllo. Tale risultato indicava anche un rischio di ammalarsi di altre malattie o in generale un rischio di morte maggiore rispetto ai soggetti sani, essendo “invecchiati” di 2 anni in più.
Se i risultati di questo studio venissero confermati, magari anche con altri sistemi di stima dell’età biologica, potrebbe voler dire che un qualche meccanismo all’interno delle cellule del corpo è responsabile, nei pazienti affetti da depressione maggiore, di determinare un invecchiamento accelerato e, quindi, precoce. L’accelerato invecchiamento osservato nello studio rimaneva anche quando i dati venivano “corretti” per tener conto di altri fattori che possono influenzare la metilazione del DNA e l’invecchiamento, quali il fumo, il peso, ecc.
Una delle riflessioni più importanti indotte da questo studio, già ampiamente nota alla comunità scientifica ma che vale la pena rimarcare, è che la depressione, come virtualmente tutte le altre malattie psichiatriche, non è quindi limitata ad un “disturbo della mente”: essa interessa in realtà tutto il corpo, come avviene anche in molte altre malattie cosiddette “fisiche”, fino addirittura a poterne, forse, modificare la velocità di invecchiamento.
Va precisato che al momento la ricerca non dà ancora la certezza assoluta che sia stata la depressione di questi pazienti a causare la diversa metilazione del DNA: potrebbe infatti essere che sia la depressione che la metilazione sono entrambi causati da un qualche altro fattore a monte. Da qui la necessità anche di altri studi per capire il nesso di causa-effetto. Qualora il nesso fosse presente e quindi la depressione causasse alterazioni della metilazione, andrebbe poi studiato se tali alterazioni, anche in questi pazienti, aumentano il rischio di mortalità. Qualora poi fosse così, in un futuro, si spera di avere a disposizione dei farmaci che possano modificare, allora, la metilazione “ringiovanendo” un po’ il DNA.
Articolo a cura di Angelo Molinaro.