Elettrocardiogramma: cos’è e come funziona
Che il cuore generasse elettricità venne dimostrato già nel XIX secolo dal fisico italiano Matteucci, ma fu Willem Einthoven, classe 1860, fisiologo olandese, che nei primi anni del Novecento pose un pilastro della Medicina: nel 1903 inventò l’Elettrocardiografia (ECG), per cui vinse il Premio Nobel per la Medicina nel 1924.
L’ECG permette di studiare l’attività elettrica del cuore attraverso un apparecchio, l’elettrocardiografo, che produce un tracciato, l’elettrocardiogramma, che si basa sul fatto che un campo elettrico mutevole genera una differenza di potenziale.
Chiunque di voi abbia mai fatto un elettrocadiogramma sa che durante l’esame il paziente è steso sul lettino e ha una serie di elettrodi addosso posizionati in maniera specifica.
Einthoven e le derivazioni
La distanza tra due elettrodi viene chiamata derivazione e, quando andiamo a registrare l’ECG, le derivazioni prese in considerazione sono addirittura 12: 6 periferiche (di cui 3 unipolari e 3 bipolari) e 6 precordiali.
Ogni derivazione viene rappresentata graficamente da un vettore e ogni vettore rappresenta la forza elettrica del cuore vista da un certo punto di vista.
Ok, vi ricordate del signor Einthoven? Le prime tre derivazioni periferiche (quelle bipolari) prendono il suo nome e formano il famoso “Triangolo di Einthoven”, che ha come centro proprio il cuore.
Il Triangolo di Einthoven (così come il resto delle derivazioni) si basa sul concetto di forze elettriche: il cuore è un generatore di forze elettriche; tutte le forze che nascono dal cuore vengono rappresentate come vettori.
Di solito si prendono in considerazione tre punti per formare il triangolo: il braccio destro, il braccio sinistro e la gamba sinistra, dove il braccio destro ha l’elettrodo con due poli negativi, il braccio sinistro ha l’elettrodo con un polo negativo e uno positivo, mentre la gamba ha l’elettrodo con 2 poli positivi.
Quelli tra di voi che hanno fatto l’esame elettrocardiografico potrebbero obiettare che c’è un elettrodo posizionato anche sulla gamba destra; ebbene, quello è il ground (ovvero la massa). Per la precisione, teoricamente il vertice inferiore del triangolo è entrambi i piedi, ma chiaramente si mette in pratica in questa maniera.
Con queste sole 3 derivazioni bipolari periferiche il piano è diviso in tre parti da 120°, ma non è ancora sufficiente per avere abbastanza punti di vista diversi della forza elettrica esercitata dal cuore. Quindi sono state introdotte altre tre derivazioni periferiche, questa volta unipolari, dette di Goldberger. Queste tre derivazioni hanno lo scopo di esplorare il piano frontale lungo le bisettrici degli angoli di Einthoven: si collegano gli estremi di ciascuna derivazione con due resistenze uguali e utilizzando la giunzione tra esse come riferimento, si considera l’elettrodo posto sul vertice opposto del triangolo e si ottengono queste altre tre direttrici (che quindi corrispondono alle bisettrici del triangolo stesso).
Gli elettrodi a ventosa che si collocano sul torace durante l’esame elettrocardiografico sono le sei derivazioni precordiali e servono ad avere un punto di vista più vicino al cuore. Questo permetterà al medico di identificare e localizzare precisamente delle eventuali lesioni che sfuggirebbero se venissero usate solo le sei derivazioni periferiche e per ottenere un’analisi del famoso vettore della depolarizzazione cardiaca su un piano trasversale (e non più frontale).
Quindi si usa un elettrodo di riferimento (di Wilson, ottenuto come media dei potenziali di Einthoven) e sei elettrodi posti appunto sul torace seguendo uno schema specifico.
Eccoci quindi arrivati all’esame elettrocardiografico con 12 derivazioni. Quello che otteniamo è, come sappiamo, il tracciato ECG.
Analizzare un tracciato ECG
Analizzare un tracciato non è banalissimo e soprattutto come ingegneri non siamo tenuti a sapere esattamente come leggere un tracciato alla perfezione, però possiamo (e dobbiamo) sapere alcune cose di partenza per –ad esempio- essere in grado di capire se siamo davanti ad un tracciato tachicardico o brachicardico o magari una fibrillazione ventricolare o atriale. Questo non solo per fare una bella figura con la nonna quando ci dice “Visto che fai biomedica, mi vedi se il tracciato va bene?”, ma anche per una futura progettazione di dispositivi medici come pacemaker, defibrillatori impiantabili e gli stessi elettrocardiografi.
Il punto di partenza è che il tracciato è composto da una certa forma che si ripete.
Questa “forma” è un’onda-base formata da altre piccole onde:
- Il tratto PQ rappresenta l’intervallo atrioventricolare, cioè la nascita dell’impulso cardiaco (attraverso la depolarizzazione degli atri).
- Il complesso QRS è un insieme di tre onde che rappresentano, rispettivamente, la depolarizzazione del setto interventricolare, la depolarizzazione dell’apice del ventricolo sinistro (durante il quale avviene anche la ripolarizzazione atriale, che però non è visibile) e la depolarizzazione delle regioni basale e posteriore del ventricolo sinistro.
- Il tratto ST corrisponde alla fase di ripolarizzazione ventricolare.
In teoria, ognuna di queste onde dovrebbe avere una certa forma e una certa durata, quindi è chiaro che analizzando queste caratteristiche possiamo capire se il tracciato ha qualche problema.
Ad esempio, se l’intervallo di tempo che c’è tra due picchi R contigui (intervallo RR) è troppo breve, siamo di fronte a una tachicardia. Se invece è troppo lungo, brachicardia.
Se l’intervallo RR è così breve da non riuscire a vedere l’onda T: fibrillazione atriale – non è letale, si può risolvere con una defibrillazione fatta per tempo.
Se il tracciato è più simile ad un’onda EEG che a un ECG, è molto confusa e non si riesce a distinguere più niente, bruttissime notizie: fibrillazione ventricolare, è letale.
Per riuscire a capire perché la fibrillazione ventricolare è letale e quella atriale no, bisogna visualizzare dove compare l’aritmia in ognuno dei due casi.
Durante la fibrillazione atriale abbiamo un movimento non coordinato degli atri. Naturalmente è molto pericoloso, perché dagli atri parte il segnale (dal nodo seno atriale) e se parte male, si spande peggio. Però si può usare un defibrillatore per ridare il ritmo giusto al cuore (e salvare la vita del paziente).
Durante la fibrillazione ventricolare, abbiamo un’aritmia cardiaca rapidissima e molto caotica che provoca delle contrazioni non coordinate nei ventricoli. In questo caso si ha una emergenza medica, perché la gittata cardiaca cessa completamente e quindi siamo di fronte a un arresto cardiocircolatorio. Le fibre muscolari ventricolari si contraggono in modo casuale e non simultaneamente, quindi il ventricolo non riesce più a pompare il sangue nelle arterie.
Dedicato agli ingegneri…
Tornando su un piano più ingegneristico, la banda utile di un segnale ECG va da 0.05 a 100/150 Hz.
Quando parliamo di ECG dobbiamo sempre tener conto dei seguenti artefatti:
- La power source, o interferenza di rete: il sistema non ha una messa a terra buona oppure non ha un buon isolamento (50 Hz – eliminabile con un filtro notch);
- Gli artefatti muscolari (da 30 a 200Hz – di solito eliminabili con un filtro passa basso);
- Gli artefatti da respiro o da movimento (pochi Hz, passa alto);
- Offset.
L’elettrocardiografo classico acquisisce i segnali attraverso gli elettrodi, effettua i filtraggi necessari per l’estrazione del segnale utile, lo processa individuando il complesso QRS e confrontandolo con una forma standard (metodo del template) tramite correlazione e, infine, stampa il tracciato su carta millimetrata.
I nuovi elettrocardiografi sono attrezzati anche con uno schermo sul quale viene visualizzato il tracciato, che può quindi essere inviato digitalmente ad altri dispositivi.