Siamo tutti abituati a vedere le tecniche di imaging come uno studio puramente morfologico del nostro organismo. Ad esempio, non ci aspetteremo mai di vedere tramite un esame diagnostico come la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), il funzionamento delle articolazioni o quali muscoli vengono attivati quando si dà un calcio al pallone. Grazie alla continua innovazione, però adesso possiamo avere tramite esame diagnostico anche un imaging funzionale.
Tutte le affermazioni sopra valgono anche per lo studio del Sistema Nervoso Centrale. La metodologia più comunemente utilizzata per l’imaging cerebrale è la Risonanza Magnetica Nucleare (RMN o MRI, sigla inglese per Magnetic Resonance Imaging).
In breve, la metodologia di diagnostica sfrutta un particolare fenomeno quantistico. I nuclei di particolare specie chimiche (ad esempio, 1H, presente in abbondanza nei tessuti dell’organismo), all’applicazione di un campo magnetico, allineano il proprio momento magnetico in base alla linea di direzione del magnete. All’applicazione di onde RF (radiofrequenza), questi cambiano il loro allineamento e al cessare di questi impulsi tornano alla posizione originaria emettendo un segnale debole, detto appunto segnale di risonanza, utilizzato per la generazione dell’immagine.
Chiunque abbia mai eseguito un esame di RMN conosce i limiti della metodologia. In particolare, è un esame che richiede diverso tempo per essere eseguito (30 minuti come minimo) e il paziente è soggetto a rumori di alta intensità, dovuti alle bobine dei gradienti presenti all’interno della macchina. Questi sono svantaggi su cui la ricerca dovrà sicuramente lavorare per rendere l’esame più accessibile ad un’area di popolazione più vasta (si pensi, ad esempio, alle persone che soffrono di claustrofobia, l’esecuzione dell’esame in questo caso è molto proibitiva…), però non si possono non considerare i notevoli vantaggi.
In primis, non vengono utilizzate radiazioni ionizzanti e quindi questo è un esame completamente sicuro per il paziente. Inoltre, questa tipologia di diagnostica si presta molto all’analisi funzionale dei tessuti, come di seguito illustrato.
La Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI, functional Magnetic Resonance) rappresenta la più recente tecnica di imaging funzionale. È utilizzata quasi esclusivamente in ambito neurologico poiché, durante l’esecuzione dell’esame, si può sottoporre al soggetto un particolare compito da svolgere per capire quali aree vengono attivate.
Essa sfrutta, oltre al segnale di risonanza descritto precedentemente, un altro tipo di risposta, quella metabolica o emodinamica, rappresentata dal cosiddetto contrasto BOLD (Blood Oxygen Level Dependent). In breve, in un’area cerebrale particolarmente attiva risulterà aumentato il flusso sanguigno e con questo anche l’apporto di emoglobina ossigenata. Questa molecola ha proprietà paramagnetiche, ovvero, all’applicazione di un campo magnetico esterno tenderà ad allineare il proprio momento magnetico con l’asse del campo. Nella pratica, le immagini generate presentano delle macchie colorate nelle aree maggiormente attivate.
Questa metodologia attualmente non è propriamente “aperta al pubblico”, difficilmente si potrà prenotare un esame di questo tipo in una struttura ed è molto improbabile che un medico prescriva questa diagnostica per verificare una particolare patologia da cui è affetto il paziente. Però, è stata e viene ancora attualmente utilizzata in ambito di ricerca e sicuramente in futuro sarà accessibile anche all’interno delle strutture mediche ed ospedali.
Gli studi con l’ausilio di fMRI per l’analisi del fenomeno della sinestesia (letteralmente “percepire insieme”) sono numerosi. In sostanza, in neuroscienza, questo termine indica una risposta involontaria o automatica ad uno stimolo proveniente da una determinata via sensoriale in un diverso percorso percettivo all’interno del cervello. Questo si traduce, ad esempio, nel sentire un determinato odore, anche se questo non è presente nell’aria, quando si vede un colore, oppure un profumo che ci ricorda il sapore di un piatto che ci piace tanto ed è come se lo sentissimo sul palato. È stato verificato in diversi studi che effettivamente in questi casi è presente un aumento dell’attività in aree sensoriale del cervello non competenti allo stimolo percettivo che abbiamo dall’esterno.
Nel 2001, in Olanda, è stato condotto un esperimento su una donna che presentava una forte forma di sinestesia per cui una parola ascoltata le provocava una sensazione visiva di un determinato colore. Il risultato dell’esame di fMRI mostrava effettivamente l’attivazione della corteccia striata V1 (un’area cerebrale deputata all’elaborazione di stimoli visivi) e della corteccia temporale inferiore posteriore (PIT, molto importante per l’integrazione di colore e forma di quello che i nostri occhi vedono). Ciò che rende il risultato sconvolgente è che la paziente ha eseguito il test e l’esame mentre era completamente bendata!
Un altro studio condotto a Cambridge sempre relativamente all’ascolto di parole, dimostra l’attivazione delle aree V4 e V8 (i cosiddetti human color center, ancora altre aree visive) nei soggetti sinesteti. In questo caso, è stata eseguita la comparazione con un gruppo di controllo a cui venivano sottoposti stimoli visivi. Questa ricerca porta all’estrapolazione di due importanti risultati:
Questo ed altri studi condotti utilizzando questa metodologia di diagnostica sono delimitati all’attivazione di piccole aree cerebrali. Al contrario, per le prospettive future di utilizzo di questa tecnologia, potrebbe essere molto interessante capire se è possibile elaborare questi segnali sull’intero organo principale del Sistema Nervoso Centrale.
I whole-brain signals sono piccole variazioni elettriche che, durante l’esecuzione dell’esame, vengono registrati sull’intera superficie della materia bianca e nella materia grigia. Essendo poco intensi, questi non sono molto profondi, però la variazione di questi potenziali elettrici potrebbe diventare un importante spunto per studi futuri. Si è osservato infatti che su molti pazienti si è registrata una variazione (anche se piccola) di questi segnali anche in assenza di movimento del soggetto.
È interessante prendere in considerazione queste piccolissime (quasi impercettibili) variazioni poiché queste potrebbero essere collegati a condizioni psichiatriche come schizofrenia e autismo. Ci si potrebbe spingere oltre ed utilizzare le tecnologie di fMRI come strumento ulteriore di diagnosi precoce delle malattie neurodegenerative: Morbo di Alzheimer, Morbo di Parkinson e Sclerosi Multipla sono infatti molto difficile da diagnosticare se non in una fase avanzata della malattia.
Attualmente, è in fase di studio l’utilizzo di macchinari più potenti per la RMN. Questa immagine mostrata sopra è stata ottenuta utilizzando una macchina con un magnete da 7 Tesla (l’unità di misura dell’intensità di campo magnetico). Sono macchinari potentissimi, consideriamo che in Italia, secondo normativa vigente, è possibile utilizzare apparecchiature che generano un campo maggiore di 2 Tesla solo per scopi di ricerca clinica!
Utilizzare lo studio funzionale tramite segnale BOLD su macchinari di questo tipo potrebbe rivoluzionare il campo dell’imaging cerebrale, migliorare e ridurre i tempi delle diagnosi di malattie complesse e aiutarci a scoprire cose impensabili fino a qualche anno fa riguardo al nostro organo “controllore”, il cervello, per cui ancora tanti meccanismi di funzionamento sono un mistero per noi!
A cura di Zattini Lorenzo