Uno dei principali problemi dello sviluppo di farmaci contro il coronavirus in colture cellulari è la scarsa prevedibilità della sua efficacia all’interno corpo umano. I lung-on-chip, letteralmente “polmoni su chip”, sviluppati da due team indipendenti negli Stati Uniti, rappresentano oggi una soluzione. Si tratta di tecnologie microfluidiche dalle dimensioni di una chiavetta USB, che integrano linee di colture cellulari a costrutti altamente ingegnerizzati in tre dimensioni. Il modello vuole ricreare quanto più fedelmente possibile le funzionalità dei polmoni e gli scambi gassosi a livello degli alveoli: una piccola avanguardia nello studio di terapie contro la Covid-19.
I lung-on-chip fanno parte di una categoria più ampia di modelli chiamati organ-on-chip. Queste tecnologie innovative rappresentano un’alternativa agli studi clinici molto lunghi e costosi, così come ai test animali. Uno degli aspetti più promettenti dell’utilizzo dei chip è lo sviluppo della medicina personalizzata, ovvero l’insieme di misure diagnostiche e terapeutiche fatte su misura del paziente. Gli organi riproducibili sono molteplici: polmoni, intestino, reni, pelle, midollo osseo e barriera ematoencefalica. Gli organ-on-chip predicono ciò che vedremo in modelli più complessi: l’uomo.
Uno dei benefici derivanti dalla produzione dei chip è la varietà e versatilità dei materiali utilizzabili per la microfabbricazione. Il design del dispositivo è facilmente modificabile e riproducibile, quindi diventa accessibile creare modelli personalizzati. Tuttavia, la peculiarità della tecnologia sta nella capacità di imitare i segnali meccanici fisiologici o patologici, a livello di tessuti o di organi, per testare l’efficacia dei farmaci. Avere a disposizione un microambiente controllato e dinamico è fondamentale per testare rapidamente farmaci e composti in totale sicurezza, soprattutto quando è necessario studiare agenti patogeni pericolosi come nel caso del coronavirus.
I metodi utilizzati per la costruzione di un modello in vitro come il chip sono principalmente due. Il primo prevede l’impiego di tessuti ex-vivo, ossia tessuti vivi all’esterno dell’organismo da cui vengono prelevati. In questo modo si mantiene l’architettura originale del tessuto, anche se è molto complesso preservarlo in coltura a lungo termine. L’utilizzo di linee cellulari supera questo ostacolo a discapito della risposta funzionale: la mancanza della struttura gerarchica del tessuto provoca variazioni fenotipiche durante l’espansione in vitro. Quest’ultimo tuttavia, è l’approccio più comune, utilizzato anche nel caso del lung-on-chip.
Il lung-on-chip è formato da due canali paralleli separati da una membrana porosa. Su entrambi i lati della membrana vengono integrate cellule endoteliali ed epiteliali di origine murina, coltivate per 12 giorni. Queste crescono nel dispositivo e si differenziano naturalmente assumendo dimensioni simili a quelle umane. Nel canale superiore del chip fluisce l’aria ed è ricoperto da epitelio alveolare. Il secondo canale funge da lumen del vaso sanguigno, ossia un endotelio vascolare cavo. Il dispositivo imita lo stress meccanico della respirazione.
Due ricerche indipendenti di Harvard hanno sviluppato diversi modelli di lung-on-chip per lo studio di farmaci efficaci contro la Covid-19. Questo nuovo approccio punta a superare il limite dei medicinali testati in laboratorio, garantendo una maggiore accuratezza tra i risultati in-vitro e quelli in-vivo.
Lung airway chip è il nome del dispositivo creato dall’Harvard Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering. Il team statunitense ha studiato 8 farmaci già in uso per combattere l’infezione da coronavirus isolandone il più efficace. Non avendo a disposizione strutture adeguate per trattare agenti patogeni pericolosi, gli scienziati hanno progettato uno pseudovirus invece di infettare il chip con SARS-CoV-2. Il virus creato in laboratorio è in grado di esprimere la proteina Spike: in questo modo è possibile identificare i farmaci che interferiscono con la capacità della proteina di legarsi ai recettori ACE2 delle cellule polmonari umane.
Quanto emerso dallo studio pubblicato su Nature Biomedical Engineering ha smentito l’efficacia di alcuni farmaci molto utilizzati all’inizio della pandemia per combattere l’infezione. Tra questi, parliamo in particolare dei farmaci antimalarici idrossiclorochina e clorochina: essi non hanno impedito al virus di entrare nei polmoni. Diversamente, è stato scoperto che amodiachina, toremifene e clomifene riducono l’infezione nel chip del 60%.
Il secondo modello 3D disegnato dai ricercatori dell’Harvard’s Brigham & Women’s Hospital è stato creato per rappresentare gli alveoli polmonari su microscala. La tecnologia si basa su un idrogel poroso tridimensionale a base di gelatina metacriloile (GelMA) legata ad un dispositivo su chip che permette l’interfaccia aria-liquido per simulare lo scambio alveolare. Lo studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences indaga i modi in cui il virus SARS-CoV-2 e le sue varianti interferiscono con l’azione dei medicinali in modo da monitorarne l’impatto, sicurezza ed efficacia.
I lung-on-chip rappresentano un’avanguardia nel mondo della ricerca e dello sviluppo di terapie personalizzate. Il bioingegnere Shrike Zhang, autore dello studio, spiega come “Questo modello delle basse vie respiratorie è unico nel suo genere” e aggiunge “Per quanto riguarda Covid-19 abbiamo avuto tempi strettissimi per sviluppare terapie. Nel futuro, se avremo pronti questi nuovi modelli di studio, potremo usarli per sperimentare nuove cure in situazioni di emergenza in cui la possibilità di fare sperimentazioni cliniche è limitata”.