Recentemente abbiamo parlato del dispositivo della Coapt, che ha permesso il controllo delle braccia bioniche tramite l’uso del pensiero. Come avevamo già accennato, non sono gli unici sul mercato a cercare di rendere più naturale possibile la convivenza con le protesi.
Questa volta i protagonisti sono gli ingegneri della University of Southampton, in Inghilterra, che hanno mostrato come dei dispositivi a bassa potenza, conosciuti come “memristors” potrebbero risultare più efficienti come interfacce neurali, il cui compito è quello di trasportare i segnali dal cervello agli arti protesici.
Themis Prodromakis, studioso di nanoelettronica alla suddetta Università, sta infatti testando uno dei possibili collegamenti che permettano la realizzazione di un’interfaccia tra cervello e computer.
Le sue ricerche lo hanno condotto a supportare la teoria che si possano sviluppare dei chip, dei veri e propri impianti neurali ( pertanto invasivi) che permettano la comunicazione diretta tra impulsi cerebrali e le protesi.
“Gestire migliaia di siti di “registrazione” nel cervello e trasmettere tutti i dati è davvero un enorme problema”
spiega Themis.
“L’aggiunta di memristor ad un sistema con circuiti integrati potrebbe consentire ai ricercatori di monitorare l’attività proveniente da almeno un milione di neuroni”.
Ricordiamo che i neuroni comunicano e operano grazie alla propagazione delle informazioni sotto forma di impulsi elettrici, per mezzo della generazione di potenziali d’azione.
In particolare, i potenziali d’azione dei neuroni si generano quando la carica elettrica interna (solitamente -70 mV) degli assoni si depolarizza, diventando progressivamente positiva e raggiungendo il threshold (-55mV) , ovvero la soglia per generare poi il potenziale che trasporterà i neurotrasmettitori all’interno di vescicole.
MEMRISTORS
Il dispositivo viene spesso descritto come quarto elemento passivo di base e si tratta di un bipolo passivo, come il condensatore o l’induttore.
E’ costituito da un resistore e una memoria interna ( come suggerisce il suo stesso nome, cioè “memoria” e “resistore”) e la sua realizzazione è rimasta solamente teorica per almeno 37 anni, prima che ne venisse creato un prototipo.
Quando la corrente fluisce la resistenza cambia, ma la modifica rimane anche dopo aver spento il dispositivo: questo particolare mira ad imitare in tutto e per tutto il cervello, specialmente sul come apprende ed elabora le informazioni.
In particolare, Themis e il suo team hanno utilizzato i memristors per cercare di registrare l’attività cerebrale, sebbene non sia un’impresa del tutto nuova, in quanto un’impresa analoga fu tentata nel 2005 utilizzando dei CMOS, ma che richiedevano un’elaborazione dei dati offline.
Il principio di funzionamento dei memristors, in questo esperimento pubblicato su Nature Communications, è quello di registrare la funzione della retina degli occhi umani che, contrariamente a quanto possiamo immaginare, non “salvano” tutto quello che vedono, altrimenti il cervello andrebbe in sovraccarico.
Come i neuroni, anche i memristors hanno delle soglie limite di tensione, le già citate thresholds e proprio questo aspetto permetterebbe ai dispositivi elettronici di comportarsi esattamente come farebbe un neurone: la percezione in input di un segnale e la sua filtrazione, eliminando il “di più” e conservando gli eventi importanti.
I ricercatori hanno coltivato dei neuroni, che successivamente sono stati collegati a dei dispositivi elettronici, memristors compresi: dopo una pre elaborazione dei segnali, gli stessi memristors hanno rilevato i picchi dei neuroni.
“L’obiettivo è che i memristors a bassa potenza possano essere collegati poi ad altri dispositivi, come ad esempio un impianto di controllo per le protesi. Il prossimo passo sarà quello della classificazione dell’attività neuronale per diverse categorie.”
precisa sempre Prodomakis.
“Questa tecnologia è estremamente interessante per quanto riguarda l’elaborazione”
afferma Max Catalana, ingegnere biomedico presso la Chalmers University of Technology in Göteborg, in Svezia
“ Tuttavia, l’applicazione clinica vera e propria non è così semplice”.
Anche lo stesso Catalana, che non è stato coinvolto nello studio, lavora su creazione di impianti per il controllo degli arti artificiali.
“Il vero collo di bottiglia nella ricerca non è tanto l’elaborazione dei segnali, ma bensì trovare un modo per interfacciare il cervello e le protesi con successo a lunga durata”
commenta Catalana.
“ In generale, le interfacce cervello- macchina ricaverebbero benefici dalla miniaturizzazione a basso consumo di sistemi computazionali, ma ragionare e lavorare verso questo obiettivo non può che essere incoraggiante”
afferma invece Nuyujukian, ingegnere alla Stanford University e anche lui non coinvolto nello studio.