Il Parkinson è la malattia neurodegenerativa più diffusa al mondo dopo l’Alzheimer. Entrambe rappresentano un capitolo ancora irrisolto delle Neuroscienze. Nonostante i progressi della ricerca, diverse sono le difficoltà associate alla sperimentazione di un trattamento farmacologico che sia efficace, non invasivo e associato alla massima riduzione di effetti collaterali. La ricerca sul morbo di Parkinson ha fatto grossi passi avanti e sono stati ottenuti eccellenti risultati nella fase pre-clinica.
Il morbo di Parkinson è una malattia neurodegenerativa che colpisce selettivamente i neuroni della substantia nigra, una piccola area del cervello interposta tra mesencefalo e diencefalo, dove viene prodotta la dopamina, responsabile dello start motorio. Non a caso, il carattere distintivo dei Parkinsoniani è il tremore a riposo, ma anche lentezza nell’esecuzione dei movimenti e rigidità muscolare.
I primi approcci terapeutici prevedevano l’utilizzo di inibitori della ricaptazione della dopamina o suoi precursori, ovvero farmaci che avevano l’obiettivo di prolungare l’azione della dopamina, limitando gli effetti e le conseguenze associate all’alterazione della substantia nigra. Questi farmaci, tuttavia, erano associati a molti effetti collaterali (sia fisiologici che comportamentali), poiché non stimolavano soltanto il circuito dopaminergico ma causavano uno squilibrio neurologico generalizzato. Una svolta decisiva è stata rappresentata dalle cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC) ma anche qui gli impedimenti non hanno tardato ad arrivare. In primis, le cellule staminali devono essere sicure, non tumorigeniche, non tossiche, devono essere capaci di distribuirsi nell’organo target, mostrare capacità di recupero (in questo caso miglioramento dell’attività motoria) e capacità di innervare l’area d’interesse.
Il punto di partenza che accomuna tutti gli approcci terapeutici (tradizionali e non) è la barriera ematoencefalica. Qualsiasi farmaco, molecola o terapia che debba agire a livello cerebrale, deve superare questa barriera. La sua funzione, infatti, è quella di proteggere il cervello e regolare severamente gli scambi con il resto dell’organismo. In caso di malattia, questa barriera rappresenta, tuttavia, un grande ostacolo da superare, per far sì che il farmaco raggiunga il cervello. Un’ottima opzione è rappresentata dalle nanoparticelle. Esse sono il compimento di anni di ricerca ma allo stesso tempo un nuovo punto di partenza. L’idea iniziale è stata quella di utilizzare nanoparticelle all’interno delle quali incapsulare il farmaco.
Esistono diversi tipi di nanoparticelle: liposomi, micelle, particelle polimeriche, esosomi. Possono variare in forma (più comunemente sferiche), dimensioni, carica elettrica, composizione. I loro componenti ben si sposano con le naturali barriere biologiche, dunque non sono tossiche bensì biodegradabili. Non rappresentano un approccio invasivo, anzi permettono di avere un maggiore controllo sul rilascio del farmaco (sia sulla dose che sull’organo target). Offrono anche il vantaggio di proteggere il farmaco in circolo prima di raggiungere l’organo target. Possono trasportare non solo farmaci, ma anche geni (terapia genica) o cellule staminali.
Inoltre, sono progettate in modo tale da superare la primissima barriera che incontrano, ovvero il sistema immunitario: si tratta di particelle “estranee” all’organismo, quindi è importante che non vengano attaccate dall’organismo e raggiungano liberamente il cervello (immunoevasione). La sperimentazione in vivo ha mostrato ottimi risultati; in più, ad oggi sono diverse le nanoparticelle approvate da FDA (Food and Drug Administration). Il costo e la sicurezza a lungo termine ad oggi sono i due aspetti da approfondire, tuttavia, l’enorme potenzialità di queste nanoparticelle, dimostrata abbondantemente in studi preclinici, fa ben sperare in promettenti trial clinici sull’uomo.
Le nanoparticelle sono sinonimo di innovazione, di nuove tecnologie applicate alla medicina. Ci sono tutti i presupposti per poter avere finalmente un approccio efficace, innovativo, con risultati a lungo termine, senza effetti collaterali. Sono il risultato della collaborazione di ingegneri, medici, biotecnologi, fisici, chimici. Del resto, come disse il grande scienziato Edward Teller: “La scienza di oggi è tecnologia del domani”.
Articolo a cura di Miriana Scordino.