Diagnostica

Sviluppata una nuova tecnica per diagnosticare declini cognitivi

Una ricerca del Politecnico di Losanna ha sviluppato il Clinical Connectome Fingerprint (CCF), una tecnica che, attraverso scanner elettromagnetici, mette in luce le differenze tra un cervello malato e uno sano e può predire declini cognitivi sul loro nascere.

Il primo uso di questa tecnica

La ricerca nasce dai problemi emersi con le precedenti tecniche di neuroimaging, con le quali si possono fare diagnosi per lievi problemi cognitivi (MCI) e per l’Alzheimer;  con esse, le difficoltà dei ricercatori risiedevano nel fare le diagnosi e nel fatto che le analisi non fossero replicabili. Tuttavia, lavori attraverso risonanze magnetiche ed EEG mostrano che il connectivity fingerprint, la nostra impronta digitale connettiva, ovvero un’immagine del connettoma e dei collegamenti nel cervello, permette di dare indicazioni precise sulla salute di un paziente.

Dunque, come questa “Impronta digitale” può avere legami con le alterazioni nei connettomi malati? Con la tecnica del Clinical Connectome Fingerprint. Attraverso questa, si paragonano i connettomi di persone sane, si evidenziano le somiglianze tra i risultati e si usano queste ultime come marcatori per mettere in luce le disomogeneità nel cervello di pazienti malati. Inoltre, il team ha ipotizzato che proprio le alterazioni riportate possano essere le cause di un declino cognitivo.

L’esperimento per identificare declini cognitivi

Una prima applicazione di questa tecnica è stata proposta dal Dottor Enrico Amico e il suo team di lavoro presso l’EPFL, il Politecnico di Losanna. L’esperimento è stato condotto su due gruppi: il primo composto da persone con lievi danni alla memoria, ma non ancora in stato di demenza, mentre il secondo da persone sane.

Le fotografie del cervello sono state scattate attraverso le onde elettromagnetiche, ottenuto misurando il campo magnetico dei neuroni (MEG), un esame neurologico e, infine, uno scan con la risonanza magnetica.

Le immagini scattate sono state due, a distanza di un minuto, e, già da subito, si nota una grande differenza di qualità tra le immagini di pazienti sani e malati. Per quanto riguarda i primi, le immagini erano uniche e riconoscibili. Ogni paziente, dunque, aveva la sua impronta particolare ma che, incrociate, mostravano punti di somiglianza e attività. Usando l’indice ICC, l’Interclass Correlation Coefficient, un parametro che permette di capire quanto dei gruppi siano simili, si vede che il valore è alto. Dunque, più è alto questo valore, più è stabile l’impronta, quindi si possono dividere chiaramente le immagini.

Per quanto riguarda i secondi, è stato invece difficile riconoscere e dividere le immagini. Gli scan, infatti, hanno riportato risultati molto differenti gli uni dagli altri. I ricercatori hanno ipotizzato che questo avviene proprio per la patologia: essa causa un minor controllo sull’attività cerebrale, dunque risultati meno stabili, meno affidabili e a una peggior performance cognitiva, quindi meno somiglianze e meno possibilità di identificazione.

Credits: Pierpaolo Sorrentino, Rosaria Rucco, Anna Lardone, Marianna Liparoti, Emahnuel Troisi Lopez, Carlo Cavaliere, Andrea Soricelli, Viktor Jirsa, Giuseppe Sorrentino.

Nel gruppo di sinistra ci sono i pazienti sani. Dalle immagini e dal render del cervello si vede come per questo gruppo ci sia una grande somiglianza tra le rilevazioni, dato l’alto valore di ICC. Al contrario, per il gruppo di destra, quello dei pazienti malati, è predominante il blu, dunque c’è una differenza minore tra i valori rilevati.

Il legame con i declini cognitivi

A questo punto, i ricercatori hanno ipotizzato che i link responsabili della mancanza di identificabilità nella corteccia dei pazienti con MCI debbano essere anche quelli legati ai sintomi. Per questo, il gruppo dei pazienti malati è stato sottoposto al MMSE, il mini mental state examination, un esame che diagnostica delle prime forme di demenza. È emerso che i pazienti con scan meno identificabili sono coloro che hanno riportato un punteggio più basso, dunque sono malati (Nel test, più il punteggio è basso, peggiore è lo stato del cervello). Inoltre, da questi test è emerso il fatto che le patologie non attacchino solo una parte del cervello, bensì spesso si espandano.

Credits: Pierpaolo Sorrentino, Rosaria Rucco, Anna Lardone, Marianna Liparoti, Emahnuel Troisi Lopez, Carlo Cavaliere, Andrea Soricelli, Viktor Jirsa, Giuseppe Sorrentino.

I risultati delle analisi

Lo scatter plot mostra la correlazione tra il punteggio del MMSE predetto e osservato in pazienti sani, sulla sinistra, e malati, sulla destra. Come si può notare, da una minor somiglianza tra le parti del cervello emerge effettivamente un punteggio medio più basso nel test, come si aspettavano anche i ricercatori (Livello indicato con il valore di correlazione di Spearman).

In conclusione, l’analisi del team di ricerca è che i link del cervello più identificabili siano un ottimo sistema di controllo per patologie, utilizzando proprio questo sistema di paragone. Questa nuova tecnica è ancora in fase di sviluppo, tuttavia il professor Amico e la sua squadra sperano che presto diventi un tipo di test diagnostico per declini cognitivi e che, in generale, si dia più spazio all’uso del brain fingerprint come diagnosi preclinica. Il risultato finale ottimale sarebbe poter comprendere con questi sistemi non solo se il paziente soffra di qualche patologia, bensì anche di quale.

A cura di Prisca Manzoni

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