Quando si riscontra un declino nelle facoltà mentali a un livello tale da compromettere la normale vita quotidiana si parla di demenza. Uno dei tipi più diffusi di questa condizione è il morbo di Alzheimer. Questa patologia conta più di un milione di casi in Italia e oltre 44 milioni al mondo. I sintomi più comuni sono quelli correlati alla perdita di memoria, da cui i clinici, insieme ad altri parametri, possono formulare la corretta diagnosi, che avviene quindi solitamente a stadi piuttosto avanzati nella progressione della malattia. Questo tipo di diagnosi non può essere confermata fino al decesso del paziente. L’unica certezza è infatti data dalla presenza delle placche amiloidi nel cervello, che può essere rilevato solo dopo la morte.
Sono però state recentemente pubblicate due ricerche su due nuovi metodi per diagnosticare il morbo di Alzheimer in “anticipo”. Uno si basa su un test di memoria e l’altro su un esame del sangue.
I ricercatori dell’Albert Einstein College of Medicine di New York hanno sviluppato un test che sarebbe in grado di identificare i pazienti affetti di Alzheimer ai primi stadi della malattia. La procedura ha inizio mostrando ai soggetti quattro carte, ciascuna con un disegno di un oggetto. Il compito è quindi quello di riconoscere l’oggetto e identificare la sua categoria di appartenenza. Ad esempio in una carta era rappresentato un grappolo d’uva, appartenente alla categoria della frutta. Si prosegue quindi con la fase effettiva del test: ai partecipanti viene chiesto di ricordare i quattro oggetti. Se presentano delle difficoltà, viene richiesta la categoria di appartenenza. In base alla loro memoria viene quindi assegnato un punteggio che varia da 0, ovvero senza alcun problema, a 5, ovvero un livello di mancanza di memoria compatibile con la demenza.
Il test è stato sottoposto a 4484 partecipanti, con una età media di 71.3 anni e una diagnosi cognitiva nella norma, ovvero senza alcun sintomo di Alzheimer. È stato quindi eseguito un esame PET per l’individuazione della beta-amiloide, una proteina presente nel cervello in caso di Alzheimer. Correlando i risultati di PET e del test è stato osservato che nei casi di livelli elevati di beta-amiloide i risultati ottenuti al test erano alti, in particolare nei livelli 3 e 4.
I ricercatori dell’Università del Kentucky hanno sviluppato un possibile metodo per rilevare l’Alzheimer da un’analisi del sangue. Lo studio è stato condotto su cervelli da donatori che in vita avevano avuto la patologia. In particolare, la platea è stata ridotta a quei partecipanti il cui sangue era stato prelevato entro due anni dal loro decesso. I campioni di 90 pazienti sono quindi stati testati alla ricerca di una varietà di proteine per cercare di identificare un biomarker che potesse ben rappresentare i cambiamenti nel cervello che contribuiscono all’insorgere della demenza.
Tra i valori interessanti hanno riscontrato un innalzamento in pTau181 e una riduzione in beta-amiloide, che sarebbe un indicatore della presenza delle placche amiloidi nel sangue. Anche i markers da proteine infiammatorie sembrano associati a ciò, oltre che al danneggiamento dei vasi sanguigni del cervello. Il team ha espresso la soddisfazione nell’aver ottenuto questi risultati. La possibilità di diagnosticare e monitorare i pazienti sarebbe infatti cruciale per quei pazienti a rischio, ma non ancora sintomatici.
Un risultato simile è stato ottenuto all’Università di Washington, dove un altro gruppo di ricercatori ha sviluppato un test basato sulla rilevazione di proteine beta amiloidi Aβ42 e Aβ40, indici dell’accumulo di placche amiloidi nel cervello. Questo test è già disponibile alla vendita negli Stati Uniti e si chiama Precivity AD, ma non è ancora coperto dall’assicurazione sanitaria.
L’Alzheimer e la demenza vengono solitamente diagnosticati basandosi su sintomi e immagini PET o di risonanza magnetica. Questo tipo di esami, però, richiedono che la patologia sia già a uno stadio avanzato, in quanto prima la rilevazione non darebbe risultati positivi. Grazie a questi due nuovi metodi sarebbe possibile identificare la popolazione a rischio, e tramite un perfezionamento degli stessi si potrebbe sperare di poter riconoscere con certezza quei pazienti che svilupperanno la malattia. In questo modo la diagnosi sarebbe molto anticipata rispetto alle tempistiche e modalità attuali. Questo scongiurerebbe quindi pazienti e famiglie dal lungo iter oggi necessario, ma aprirebbe anche nuove possibilità terapeutiche. Tramite una diagnosi anticipata, infatti, si potrebbero sviluppare e testare nuovi farmaci in grado di bloccare l’avanzamento delle patologie.