Un nuovo modello per trattare la fibrosi senza l’utilizzo degli animali
Da anni i ricercatori si interrogano su tecniche che possano replicare struttura e funzione del tessuto connettivo umano al fine di comprendere al meglio i disturbi che coinvolgono tale tessuto, come la fibrosi. Il problema principale in tali ricerche è che la maggior parte dei modelli si focalizza sull’utilizzo di animali, rappresentando dunque una grossa limitazione.
I ricercatori della Brown University hanno sviluppato un nuovo modello 3D utilizzando cellule umane non solo per replicare la struttura del tessuto ma per imitarne anche la meccanica.
Questo modello offre ai ricercatori un nuovo strumento non solo per esplorare i meccanismi alla base della fibrosi e delle malattie ereditarie della matrice extracellulare, ma anche per testare potenziali trattamenti per loro.
Jeff Morgan
Una nuova tecnica
Negli ultimi anni nel campo della ricerca c’è stato un grosso cambiamento nella comprensione della matrice dei tessuti. Questa fornisce non solo supporto strutturale, ma è in grado anche di comunicare con le cellule circostanti mediante la trasmissione di segnali biochimici e meccanici. Questa comunicazione risulta fondamentale nel mantenimento dell’omeostasi cellulare e della funzione dei tessuti.
La maggior parte degli approcci di ingegneria tissutale per il trattamento della fibrosi utilizzati fino ad ora si basano sull’utilizzo di scaffold proteici.
L’obiettivo del gruppo di ricerca è quindi quello di sviluppare uno strumento in grado di sfruttare le proprietà delle cellule per formare tessuti 3D e sintetizzare la matrice.
Il problema principale nell’approccio
Il meccanismo utilizzato dai ricercatori prende il nome di ‘autoassemblaggio cellulare’.
Quando il gruppo di ricerca ha mosso i primi passi con la tecnica tentando di applicare tale meccanismo ai fibroblasti quello che hanno visto è che questo meccanismo funzionava in modo diverso, i costruttori del tessuto infatti andavano incontro a rottura spontaneamente.
Ottenuti questi primi dati i ricercatori hanno cercato di migliorare la tecnica e in questa fase fondamentale è stato il contributo di Wilks, studente dottorando, il quale notò che alterando la composizione dei nutrienti in cui le cellule venivano coltivate questa aiutava la formazione dei costrutti tissutali che rimanevano più stabili per settimane o mesi. Wilks notò inoltre che apportando piccoli accorgimenti ai parametri aggiuntivi della tecnica come geometria dello stampo e numero di cellule era possibile formare costrutti 3D con forme specifiche. La costruzione di questi faceva sì che i fibroblasti si autoorientassero riuscendo anche a sintetizzare la propria matrice.
Quello è stato davvero il momento in cui ho iniziato a emozionarmi: quando ho visto come i fibroblasti si stavano allineando e sintetizzando questa bellissima matrice extracellulare 3D ricca di collagene in un modello di onda periodica che ricorda quello che si vede nei tessuti connettivi nativi come legamenti e tendini.
Wilks
Una volta confermata la struttura 3D i ricercatori hanno effettuato alcuni test per quantificare rigidità e forza dei costrutti.
Utilizzando Instron, una macchina per prove di trazione, il gruppo di ricerca ha misurato quanta forza è necessaria per allungare il tessuto prima di raggiungere il punto di rottura. I dati ottenuti posso poi essere usati per una valutazione delle proprietà meccaniche che possono quindi essere correlate ai tessuti.
Con questa nuova tecnica si aprono nuove speranze per la cura di patologie che compromettono il tessuto connettivo e che inducono disturbi della matrice extracellulare, come la sindrome di Marfan, senza ricorrere all’uso di modelli animali per testare i nuovi approcci.