Torniamo a parlare di stampa 3D e lo facciamo compiendo un altro passo verso quella
che potrebbe essere la chiave decisiva per la ripartenza della produzione di dispositivi
medici all’interno del corpo.
Ad oggi, l’organizzazione scientifica “ASTM Committee F42 on Additive Manufacturing
Technologies” classifica le tecnologie di stampa 3D in 7 gruppi: powder bed fusion,
directed energy deposition, sheet lamination, binder jetting, material jetting, material
extrusion, vat photopolymerization.
Tali tecniche differiscono l’una dall’altra, sostanzialmente, rispetto al modo in cui vengono
realizzati i singoli layer, quindi rispetto al tipo di trattamento del materiale in uso. Partendo
da un modello tridimensionale virtuale che viene scomposto in una serie di strati
bidimensionali, si ottiene il prodotto finale come frutto di una progressiva e
sequenziale deposizione dei singoli strati di materiale.
I ricercatori del NIST (National Institute of Standards and Technology) hanno lavorato ad
una nuova tecnologia che si prefigge l’obiettivo di trattare materiali soffici e gel,
ottenendo livelli di precisione più elevati.
In questo caso, la realizzazione di un oggetto è più delicata e complessa del solito in termini di “processo di cottura” del materiale.
La tecnologia prevede che ci sia una vasca contenente soluzione acquosa, nella quale
sono dispersi dei monomeri, alla quale viene aggiunta una certa dose di fotoiniziatori.
I fotoiniziatori sono molecole in grado di essere attivate da una certa sorgente
luminosa.
Una volta stimolati, questi reagiscono con i monomeri in soluzione e portano alla
formazione del reticolato, ovvero i layer di materiale polimerizzato.
Solitamente le radiazioni luminose vengono scelte a lunghezze d’onda nel visibile o
nell’UV.
Gli studiosi del NIST hanno, invece, focalizzato la loro attenzione su lunghezze d’onda più
corte alle quali è associata un’energia maggiore, sfruttando fasci di elettroni o raggi X
che, in linea generale, offrono una risoluzione ed una velocità di stampa più elevate.
Nell’usare sorgenti con radiazione a lunghezza d’onda corta e strettamente focalizzata, gli
studiosi hanno dovuto tener conto del fatto che queste possano funzionare solo nel vuoto
(e questo è un problema poiché, nel vuoto, il liquido in ciascuna camera evapora invece di
formare un gel).
Kolmakov ed i suoi colleghi, insieme al centro di ricerca internazionale italiano Elettra
Sincrotrone Trieste, hanno ovviato al problema posizionando un sottilissimo strato di nitruro di silicio tra il vuoto e la camera del liquido. Con questo effetto barriera si evita
l’evaporazione del liquido (come normalmente accadrebbe nel vuoto) consentendo,
invece, l’azione penetrante dei raggi X e degli elettroni.
La precisione che si raggiunge con questo tipo di tecnica è notevole, parliamo, infatti, di
precisione su scala nanometrica.
La possibilità di ricreare oggetti di dimensioni fino a 100 nm in gel segna una svolta
decisiva nell’ambito dell’elettronica impiantabile-indossabile, nella microrobotica,
nell’ingegneria dei tessuti, nei biosensori e nella somministrazione di farmaci.
Infatti, considerando che molti dei gel usati risultano essere biocompatibili, tale tecnologia
può portare alla produzione di dispositivi medici inseribili nel corpo umano, come ad esempio elettrodi flessibili in grado di monitorare l’attività cerebrale, piuttosto che strutture capaci di avere un’effettiva interazione cellulare e favorirne la crescita. Affinando questa tecnica di stampa 3D, i ricercatori del NIST confidano di poter imprimere su gel delle strutture che
arrivino fino a 50 nm, vale a dire la dimensione di un piccolo virus.
Articolo a cura di Nicole Rinaldi.