Pacemaker fetale: pronti per i test sull’essere umano
Un progetto durato circa 5 anni e adesso tutto è pronto per la sperimentazione sull’essere umano. Stiamo parlando del pacemaker fetale, un dispositivo in grado di salvare i feti dal blocco cardiaco, disfunzione di cui se ne stimano intorno ai 500 casi all’anno, negli Stati Uniti. La ricerca è stata portata avanti dalla USC University of Southern California ed ha raggiunto il traguardo finale con lo sviluppo di un apposito sistema di ricarica wireless.
“È necessario fare il pacemaker abbastanza piccolo così che possa essere impiantato interamente all’interno del feto, e lo si vuole fare con tecniche minimamente invasive”, spiega Gerald Loeb, ingegnere biomedico presso l’USC e co-direttore del progetto.
Un pacemaker unico nel suo genere
Il blocco cardiaco consiste in una disfunzione nel sistema di conduzione elettrica del cuore che lo porta a battere troppo lentamente per pompare abbastanza sangue nel corpo. Il comune trattamento consiste nell’impianto di un pacemaker che ripristini il normale ritmo cardiaco. Per quanto riguarda gli adulti, avevamo già parlato di questo dispositivo circa due anni fa, quando a Bari ne fu impiantato il più piccolo del mondo. Con i feti, le cose si fanno ovviamente più delicate. Prima di adesso non esisteva un metodo efficace per trattare il blocco cardiaco fetale. I precedenti tentativi si erano focalizzati sul posizionamento di un pacemaker nel corpo della madre, collegato successivamente al cuore del piccolo attraverso il filo di stimolazione. Queste soluzioni però hanno fallito, dal momento che il feto cambia spesso posizione.
Quello che invece è nato dalla collaborazione tra ingegneri dell’USC e i medici della Keck School of Medicine of USC, è un micro dispositivo capace di passare attraverso il diametro di 3.8 mm dell’apposita cannula utilizzata in chirurgia fetale. Questo riduce in maniera consistente l’invasività dell’operazione, offrendo la possibilità di impianto in via laparoscopica.
Il pacemaker fetale è, tuttavia, complessivamente semplice. Composto da solo 7 componenti, mantiene un design molto “retrò“, come lo definisce lo stesso Loeb. Vi sono, infatti, un semplice circuito, costituito da un oscillatore di rilassamento a singolo transistor, e una capsula in resina epossidica per l’isolamento. L’utilizzo di questa resina, invece del titanio, di più lunga durata ma anche più ingombrante, è giustificata dal fatto che lo scopo è utilizzare questo micro pacemaker solo alcuni mesi; infatti, dopo il parto, verrà sostituito con uno convenzionale.
L’ultimo fondamentale traguardo, ed anche il più impegnativo, è stato l’elaborazione di uno speciale sistema di ricarica wireless. Il dispositivo è alimentato da una piccola batteria al litio che ha un’autonomia di una settimana e necessita quindi di periodica ricarica, senza essere rimossa. La soluzione è stata quella di sfruttare l’accoppiamento induttivo. Attraverso un generatore di campo ad alta potenza, viene creato un campo magnetico a radiofrequenza, ad di fuori del corpo, che si accoppia con la bobina all’interno dell’impianto.
Il micro pacemaker è stato già impiantato con successo in feti di pecora ed ora è pronto per il primo paziente umano.
Abbiamo testato e perfezionato il sistema di ricarica con gli attuali pacemaker in previsione di un primo paziente. Vogliamo essere preparati, se e quando un paziente si presenterà.
afferma Loeb.