L’amputato ha bisogno di una connessione sicura e confortevole tra il suo arto residuo e quello protesizzato. Nella stragrande maggioranza dei casi tutto ciò avviene mediante l’invaso che ha il compito di connettere la protesi con il moncone cercando di consentire un accoppiamento efficace tale da garantire la corretta trasmissione delle forze durante la deambulazione. Tuttavia, l’utilizzo dell’invaso può comportare problemi di lacerazione della pelle, dolore e limitazione nei movimenti. Per questo molti studiosi si sono focalizzati su un nuovo approccio che prevede la connessione diretta tra protesi e moncone attraverso un impianto osteointegrato. Questa procedura, anche nota con il nome DSA (Direct Skeletal Attachment), può infatti portare numerosi benefici tra cui la riduzione dei problemi di irritazione della pelle e un aumento della possibilità di movimento utilizzando protesi osteointegrate.
Ciò non significa che questa nuova tecnica non abbia i suoi svantaggi: possibilità di infezione, rottura dell’impianto, tempi di recupero e riabilitazione prolungati e possibilità di ulteriori interventi di revisione. È sicuramente una tecnica innovativa che si pone come obiettivo quello di eliminare il più possibile i problemi legati all’utilizzo di una protesi tradizionale dotata di invasatura. Vale la pena, quindi, approfondire il discorso cercando di capire da cosa sono costituiti gli impianti e quale sia il percorso riabilitativo.
L’impianto osteointegrato deve essere un’estensione dell’osso che, in questo modo, può fuoriuscire verso l’esterno, trapassando la pelle. I carichi sono trasmessi direttamente sul sistema osso-impianto, senza coinvolgere i tessuti molli. L’estensione dell’osso deve essere funzionale, permettendo libertà di movimento senza provocare dolore e impedire l’ingresso di batteri all’interfaccia pelle-impianto. Per questo motivo la protesi è realizzata con materiali totalmente biocompatibili e sterilizzabili.
Il primo impianto osteointegrato risale agli anni ‘50 e fu sviluppato dal chirurgo svedese Richard Branemark che ideò un opportuno piano riabilitativo, tuttora utilizzato. Questo sistema osteointegrato prese il nome di OPRA (Osseointegrated Prostheses for the Rehabilitation of Amputees). Successivamente, furono sviluppati numerose tipologie di impianti osteointegrati, tra cui l’ILP (Integral Leg Prosthesis) in Germania e l’ITAP (Intraosseus Transcutaneous Amputation Prosthesis) in Inghilterra.
Come spiega il Journal of Rehabilitation Research & Development, l’inserimento dell’impianto per protesi osteointegrate necessita di due operazioni chirurgiche. Durante il primo intervento la vite in titanio viene introdotta nella cavità intramidollare del femore residuo. Successivamente, l’incisione viene richiusa dando il tempo al processo di osteointegrazione di attivarsi. In questa prima fase il paziente può continuare a camminare con una protesi tradizionale. Dopo circa sei mesi si può procedere con la seconda operazione che prevede l’inserimento della parte terminale dell’impianto che fuoriuscirà dalla pelle del moncone. Il punto di interfaccia pelle-impianto è detto stoma e costituisce la zona più delicata da trattare con cura.
Il processo di riabilitazione inizia circa 2-3 mesi dopo la seconda operazione ed è piuttosto lungo e articolato. Durante le prime settimane il paziente deve utilizzare una protesi detta “da allenamento”, molto più corta rispetto a quella definitiva. L’arto viene gradualmente caricato tenendo monitorata la soglia del dolore e sottoponendo il paziente ad analisi periodiche con raggi-X per verificare lo stato del processo di osteointegrazione. L’iter riabilitativo segue il protocollo ideato da Branemark che permette di scegliere tra due tipologie di riabilitazione a seconda delle esigenze del paziente.
La prima è detta Normal Speed e consiste nell’incremento del peso supportato dalla protesi di circa 10 kg a settimana con protesi da allenamento, cercando di mantenersi sotto la soglia 5 sulla scala del dolore VAS (Visual Analog pain Scale). Dopo qualche settimana, il paziente può utilizzare la protesi definitiva caricando parzialmente l’arto. Il carico viene poi aumentato gradualmente per altri tre mesi per un totale definitivo del processo riabilitativo di circa 12 mesi. La seconda tipologia, detta Half Speed, è invece caratterizzata da aumenti di carico più graduali e tempistiche più lunghe. Nelle prime settimane il carico viene incrementato più lentamente cercando di mantenere la soglia del dolore al di sotto di 3. Solamente dopo 6 mesi il paziente potrà utilizzare la protesi definitiva con un aumento graduale del carico in circa 4-6 mesi. Il tempo totale del processo riabilitativo raggiunge quindi i 16-18 mesi.
Sulla base dei dati riportati dal British Journal of Surgery, ricavati da diversi trial clinici, è possibile affermare che l’utilizzo di un impianto osteointegrato migliora notevolmente la qualità del cammino, la mobilità, il comfort nella seduta e limita il verificarsi della sindrome dell’arto fantasma. Tra tutti i pazienti che hanno partecipato ai vari trial clinici, in pochi hanno riscontrato problemi legati al dolore o alla rottura dell’impianto. Lo svantaggio principale è però legato alla facilità di infezione. I dati mostrano infatti una percentuale di infezioni molto alta, in alcuni casi che sfiora il 77%, anche se la maggior parte non sono da ritenersi gravi in quanto solamente superficiali e trattabili con antibiotico. Nessuna infezione inoltre sembra aver causato la morte del paziente o la rimozione totale dell’impianto.
In seguito ai vantaggi riscontrati vale quindi la pena proseguire negli studi al fine di migliorare il design dell’impianto, eliminando i rischi. Le protesi osteointegrate rimangono, per ora, una soluzione per pochi. È infatti consigliata a chi ha gravi difficoltà nell’indossare l’invasatura e sarebbe quindi costretto a rinunciare a camminare con una protesi. I pazienti inoltre dovranno mostrare una forte stabilità emotiva e grande motivazione essendo il percorso riabilitativo molto lungo ed impegnativo.
Articolo a cura di Eleonora Folli.