Protesi

    Close-Up Enginnering

    Protesi della mano sensibili con l’uso di “Pelle Artificiale”

    Nei laboratori Zhenan Bao a Stanford, i ricercatori stanno strutturando nuovi materiali.
    Lo scopo è quello di creare protesi della mano sensibili con l’uso di “Pelle Artificiale”.
    La mano umana ha 17.000 unità tattili – composte di cinque grossi tipi di recettori: recettori liberi, corpuscoli di Meissner, dischi di Merkel, corpuscoli di Pacini e terminazioni di Ruffini – che ci consentono di trattenere gli oggetti e ci collegano, in un certo qual modo, al mondo fisico attraverso la pelle che, difatti, costituisce la nostra interfaccia verso il mondo esterno. Risulta semplice arrivare alla deduzione che una mano protesica o almeno quelle presenti attualmente sul mercato non possiede tale numero di sensori. Proprio partendo da questo dato effettivo alla Zhenan Bao si spera di mutare la situazione.

    Dunque: Come dare alle protesi della mano sensibilità reale?

    La risposta viene fornita dalla professoressa Bao, vincitrice di un MIT Technology Review Innovator Under 35 nel 2003 e docente di ingegneria chimica alla Stanford University, che ha trascorso un decennio cercando di sviluppare un materiale che riproduca la capacità della pelle di flettere e prima tra tutte quella di guarire e fungere da rete di sensori finalizzati a trasmette segnali tattili, temperatura e dolore al cervello.

    Le aree di ricerca del Gruppo Bao includono la sintesi di materiali organici e polimerici, design organico, dispositivi elettronici e lo sviluppo di applicazioni per l’elettronica organica. Il loro approccio è multidisciplinare e coinvolge competenze in ambito chimico, dell’ingegneria biomedica, scienza dei materiali, fisica ed ingegneria elettrica. I dispositivi di interesse attuale sono transistor organici e nanotubi di carbonio a film sottile, celle fotovoltaiche organiche, sensori biologici e interruttori molecolari.

    Espositore sensori per Protesi della Mano
    Ogni dito su questa mano espositore in legno è dotato di un sensore di contatto elastico collegato a conduttori elettrici che trasportano i dati ad un centro di controllo elettronico flessibile sul palmo | Close-up Engineering

    Questi dispositivi sono utilizzati come strumenti di caratterizzazione per gli studi fondamentali di trasporto di carica e fotofisica. Essi sono anche di interesse pratico per l’elettronica su scala nanometrica, fonti energetiche alternative a basso costo e la vasta area dei circuiti flessibili in plastica.

    Lo scopo?

    Creare un tessuto integrato con sensori che ricoprendo la protesi della mano è in grado di replicare alcune delle funzioni sensoriali della pelle in modo da contribuire ad alleviare, tra tutte le limitazioni di un arto protesico, una delle sintomatologie più diffuse in coloro che si trovano a convivere con la mancanza di un arto: la sindrome dell’arto fantasma.

    Zhenan BaoQuesta è la prima volta che un materiale simil-pelle flessibile è capace di rilevare la pressione e trasmettere un segnale ad un componente del sistema nervoso

    Il cuore della tecnica?

    Una costruzione a due strati.
    Lo strato superiore crea un meccanismo di rilevamento della pressione e lo strato inferiore agisce come un circuito per trasportare segnali elettrici e tradurli in stimoli biochimici compatibili con le cellule nervose. Close-up EnginneringPer creare questo nuovo materiale che funga come pelle artificiale per la protesi della mano, i ricercatori del gruppo Bao sono riusciti a mescolare e compattare diversi “ingredienti” in modo da rendere il tessuto robusto e capace di ripararsi in tempi rapidi. Il componente principale è un polimero plastico composto da lunghe catene di molecole unite da legami a idrogeno. Questi legami molecolari sono relativamente facili da spezzare ma quando vengono nuovamente in contatto, permettono  un rapido raggruppamento delle molecole “rigenerando” la struttura originale.
    Questa base polimerica dona inoltre al materiale il vantaggio di risultare morbido e flessibile. In laboratorio i ricercatori hanno aggiunto a questo mix polimerico delle sferette di nickel grandi pochi micron. Queste micro-sfere non solo rendono il tessuto più resistente, ma incrementano notevolmente la conducibilità elettrica del materiale grazie all’uso di piccole punte presenti sulle sferette capaci di concentrare il campo elettrico e rendere così più facile lo scorrimento degli elettroni nel materiale. Tale tessuto dunque può essere utilizzato ed insidiato sulle protesi della mano come sensore per riprodurre in formato digitale il senso del tatto. Il cardine su cui si regge il tatto artificiale sono le micro-sfere di nickel che facilitano il percorso degli elettroni: “rimbalzando” da una sfera all’altra, gli elettroni possono così spostarsi più facilmente nel polimero.Close-up Enginnering Imprimendo una piccola pressione sulla “pelle artificiale”, il gap fra le sfere muta alterando quindi la conducibilità elettrica. Monitorando il flusso di corrente elettrica che attraversa il materiale è possibile dunque stabilire se la pelle artificiale è sottoposta a tensioni o pressioni: questo rende possibile “percepire”  ad esempio la pressione corrispondente alla stretta di mano. Per analizzare la sensibilità i ricercatori hanno innestato il tessuto su un piccolo manichino concludendo così la grande utilità di questo materiale per la realizzazione di protesi della mano.

    Close-up EnginneringIn conclusione il test sicuramente più notevole riguarda la capacità di “guarigione”: dopo aver applicato una leggera pressione si è osservato che in pochi secondi il materiale aveva recuperato il 75% della resistenza e conduttività originale. In meno di mezz’ora poi il materiale era tornato intatto: un’abilità spettacolare se paragonata a quella della pelle umana il cui self-repair impiega almeno qualche giorno.

    Non ci resta che attendere ulteriori sviluppi in merito a quest’intuizione portentosa che ha generato un’idea che si dimostrerà vincente.

    Soft Robotic Sixth Finger

    SIRSlab e i robot indossabili che aiutano la vita dei disabili

    Sogna di realizzare robot indossabili, che assumono forme di anelli e bracciali, in grado di aiutare chi non può muovere una delle due mani a svolgere compiti che ne richiedono due, come: sbucciare una mela, mettere il dentifricio su uno spazzolino, preparare il caffè con la moka o aprire una scatoletta di tonno. E lo fa in una provincia italiana, non in uno dei centri di ricerca della California. Nel frattempo i suoi studi vanno avanti e di recente ha creato il Sesto Dito Robotico.

    Chi pensa così in grande? Domenico Prattichizzo, nato nel ’65 a San Severo (Foggia), laureato a Pisa e professore ordinario di Robotica presso il dipartimento di Ingegneria dell’Informazione e Scienze Matematiche dell’Università degli Studi di Siena, dove guida un’équipe di sedici ricercatori. Una miniera di idee, un vulcano quando parla. Senior Scientist all’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, da tempo studia come permettere a mani robotiche e umane insieme di manipolare oggetti di uso quotidiano. Dal 2013 coordina un importante progetto europeo del programma FP7: WEARHAP – wearable haptics for Humans and robot. Sei anni fa ha guidato il progetto sulla comunicazione tattile: remote touch, selezionato per la presentazione a Expo Shangai 2010 nell’ambito dell’iniziativa Italia degli Innovatori, promossa dal ministero dell’Innovazione. Da qualche anno le sue ricerche si stanno concentrando sulla robotica ad elevata indossabilità.

    PH: sirslab.dii.unisi.it
    PH: sirslab.dii.unisi.it

    Il suo studio è all’ateneo di Siena ed è sempre pieno di entusiasmo. “Devo caricarmi al massimo ogni giorno e guidare il mio gruppo – racconta – perché la mia è una doppia sfida: creare robot indossabili che possano migliorare la qualità della vita di persone colpite da ictus o con altre disabilità, come il Parkinson, e farlo qui a Siena, in una città che non è in Silicon Valley. Siena è una realtà italiana di provincia, e noi siamo un laboratorio di una bellissima provincia italiana. E la ricchezza dell’Italia non sta proprio nelle province in cui la qualità della vita è molto alta? E non è un valore sviluppare tecnologia in queste aree? Noi, con il modello organizzativo del nostro laboratorio, vogliamo creare un esempio di sviluppo della ricerca scientifica internazionale e di eccellenza, che ricordi la struttura delle piccole e medie imprese, alla base del tessuto produttivo italiano. Non è importante che sia difficile trovare tanti studenti o arrivare a Siena. Questo non ci ferma. Se il gruppo è forte, se il team è trainante e di altissima qualità, riesce ad avere appeal, a prescindere dal posto in cui opera”.

    E poi fare ricerca in un territorio come questo ha un valore enorme: “La qualità della vita è alta e questo può certamente essere di aiuto nella capacità di polarizzare ricercatori e risorse. Se proprio non riusciamo a portare i colleghi a Siena, andiamo noi da loro. Ci siamo attrezzati con sistemi di teleconferenza, quelli che conosciamo tutti, con cui riusciamo ad essere presenti da remoto, partecipando a incontri internazionali importanti. Non solo. Con il nostro modello di sviluppo del Laboratorio di Ricerca, che si chiama SIRSLab, abbiamo fino ad oggi attratto molti finanziamenti, quasi tutti europei e da aziende statunitensi”.

    L’obiettivo, insomma, è “creare un modello per essere strategici nel mondo anche da una città di provincia come Siena. E sa perché? Siena sta all’Italia come l’Italia sta al resto del mondo. La nostra scommessa è trasformare Siena, quindi il nostro Paese, bello e vivibile, in un centro nei network mondiali per lo studio della robotica ad elevata indossabilità”.

    Ma cosa vi stimola ad andare avanti?
    “Per paradosso – spiega – proprio la dimensione provinciale di Siena, la dolcezza delle sue colline, la bellezza del suo territorio, pari a quella del nostro Paese. In una parola, quello che ispira anche la mia idea di slow travel. I treni a Siena sono lenti? Sì. Bene, ne approfitto per lavorare in treno e godermi la tranquillità di due ore ininterrotte di lavoro mentre viaggio. Ripeto, lavorare da qui è molto faticoso, come in buona parte dell’Italia, ma mi dà la possibilità di studiare e osservare meglio la realtà. Confesso che la maggior parte delle mie idee – e non parlo solo di quelle che realizziamo in laboratorio per gli amici che hanno avuto un ictus, ma anche su come organizzare il lavoro del mio team – mi vengono viaggiando in treno. Con lentezza. A Siena non c’è l’alta velocità per i treni e questo è un problema oggettivo, ma io voglio vedere il bicchiere mezzo pieno”.

    Soft Robotic Sixth Finger
    PH: sirslab.dii.unisi.it

    L’ultimo prodotto realizzato dai sedici ricercatori del #sirslab è il Sesto dito, il Soft-Robotic-Sixth-Finger, che è la prima protesi robotica sviluppata per compensare le funzionalità della mano di un paziente colpito da ictus o da altre patologie che rendono l’arto paralizzato. Si tratta di un robot indossabile, progettato per integrare le funzioni di un arto o sostituirlo in modo completo. “Il sesto dito robotico – spiega il professore – è stato pensato come estensione della mano. Si voleva garantire che il malato cronico (è tale dopo più di sei mesi) recuperasse la capacità di afferrare e manipolare gli oggetti. La progettazione del prototipo è stata guidata da esperti di robotica e riabilitazione”.

    Il sesto dito robotico ha una struttura flessibile, quindi si adatta alla forma degli oggetti durante la presa. Il dispositivo è dotato di un meccanismo sulla base, che permette all’utilizzatore di farlo ruotare e riporlo come un bracciale attorno al polso, per poi poterlo facilmente riutilizzare quando occorre. Viene indossato sull’avambraccio tramite una fascia elastica, che permette di posizionarlo a seconda delle esigenze del paziente. Il sesto dito e la mano paralizzata lavorano insieme per afferrare un oggetto, come se fossero parti di una pinza.

    “E’ facile usare questo apparecchio – conclude Prattichizzo – Possono indossarlo e controllarlo non solo persone colpite da ictus, ma anche pazienti con alcuni deficit cognitivi. Ed è stato provato che riesce a far superare il fenomeno frustrante del ‘learned non-use’, cioè dell’apprendimento a non usare l’arto affetto. Oggi stiamo studiando come permettere all’utente di controllare la protesi, sfruttando l’attività del cervello. E chissà, magari un giorno, riusciremo a creare anelli e bracciali in grado di far muovere solo con gli impulsi del cervello robot per farci lavare l’auto in garage”. Intanto a Novembre prossimo il professore terrà un Plenary Talk alla Asia Haptics.

    Un nuovo braccio robotico per tetraplegici comandato col pensiero

    Un nuovo ed innovativo braccio robotico comandato direttamente col pensiero grazie a microelettrodi impiantati nel cervello ha dato la possibilità a Erik G. Sorto, paralizzato da 13 anni a causa di un danno spinale, di afferrare un bicchiere per bere.

    ©popularmechanics.com

    Il soggetto paralizzato riesce così a comandare il braccio, pensando solo all’obiettivo da raggiungere. Lo studio pubblicato su “Science” dimostra come l’approccio innovativo,  frutto di una collaborazione tra il California Institute of Technology, University of Southern California e Rancho Los Amigos National Rehabilitation Center, abbia permesso di superare alcuni importanti limiti che si riscontravano con le neuroprotesi realizzate fino ad ora.

    Infatti, la tecnica più usata prevede l’impianto di microelettrodi nell’area crebrale che controlla il movimento: la corteccia motoria. Tale movimento è però affetto da due disturbi: un leggero tremore e un ritardo rispetto all’input del paziente.

    L’idea vincente è stata quella di sfruttare, come sede per gli elettrodi, un’altra area cerebrale: la corteccia parietale posteriore. Essa è deputata alle funzioni cognitive superiori, come la formulazione dell’intenzione di effettuare un movimento. In questo modo è stato possibile eliminare quel ritardo presente con i precedenti sistemi ottenendo un movimento più fluido e simile al movimento reale. Infatti, la corteccia parietale posteriore è posta all’inizio del cammino neurale che arriva fino agli arti.

    Il nuovo meccanismo ha quindi portato ad avere un risultato semplicemente pensando al movimento, come avviene in situazioni normali, senza pensare a quali muscoli dover attivare e senza pensare ai dettagli del movimento.

    Erik Sorto ha iniziato dal 2013 un programma di addestramento che gli ha permesso prima di poter comandare il cursore di un computer arrivando oggi a gestire un braccio robotico.

     

     

    CYBERLEGs, Italian Project fot bionic legs, Close-up Engineering, Credits: cyberlegs.eu

    CYBERLEGs, gambe robotiche per tornare a camminare

    La perdita totale o parziale di un arto inferiore è una condizione disabilitante che compromette salute e benessere di molte persone nel mondo. Le cause di un’amputazione possono essere diverse: diabete, malattie vascolari, eventi traumatici, tumori o malformazioni congenite.
    Si calcola che solo negli Stati Uniti, ogni anno, vi siano 150mila amputazioni di arto inferiore causate da patologie vascolari.

    Tali amputazioni possono essere di differente livello: possono interessare il piede (amputazione digitale, transmetatarsale, di Lisfranc, di Chopart, di Pirogrof, di Syme, o disarticolazioni della caviglia), la gamba (transtibiale, disarticolazione del ginocchio), la coscia (transfemorale, che rappresenta il 20% di tutte le amputazioni), o il bacino (disarticolazione dell’anca, emipelvectomia).

    Gli amputati transfemorali devono superare difficoltà dovute al fatto che ogni compito motorio legato alla deambulazione (camminare, salire o scendere le scale, alzarsi e sedersi) comporta un maggiore sforzo fisico (con un notevole consumo energetico, che aumenta con il livello dell’amputazione) e mentale (sforzo cognitivo).

    Gli amputati transfemorali, infatti, hanno bisogno di maggiore concentrazione per camminare, dal momento che percepiscono una minore stabilità.

    La maggior parte degli amputati vascolari non utilizza protesi, ricorrendo a soluzioni di ‘più facile utilizzo’ come la carrozzina. Ciò è dovuto al fatto che la maggior parte delle protesi per amputati transfemorali sono passive (non vi sono motori ai giunti) o semi-attive (protesi con ginocchio composto da un meccanismo frenante), ovvero non erogano la potenza meccanica necessaria al cammino e agli altri compiti di locomozione.
    E’ per questo motivo che la ricerca sta spingendo verso la progettazione di protesi attive, che presentano motori nei giunti.

    Il progetto di ricerca CYBERLEGs (acronimo di CYBERnetic LowEr-Limb CoGnitive Ortho-prosthesis), coordinato da Nicola Vitiello dell’Istituto di biorobotica della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa e a cui ha preso parte anche il Centro Irccs Don Carlo Gnocchi di Firenze, dove sono stati presentati i prototipi, testati su 11 persone, si pone l’obiettivo di concepire e sviluppare nuove soluzioni ICT (ed in particolare robotiche) indossabili per migliorare la qualità della vita di amputati transfemorali vascolari. In particolare, l’obiettivo finale del progett CYBERLEGs è lo sviluppo di un sistema robotico indossabile – denominato orto-protesi – costituito da una protesi transfemorale attiva (con giunti robotizzati) ed un’ortesi attiva (meccanicamente accoppiata alla protesi) per provvedere assistenza motoria sia all’arto sano che all’anca dell’arto amputato. 

    L’ortesi attiva è concepita per essere modulare e si compone di due moduli. Il primo modulo (direttamente accoppiato alla protesi) è un’ortesi bilaterale per l’assistenza della flesso-estenssione dell’anca. Tale modulo è denominato Active Pelvis Orthosis (APO). Il secondo modulo è un’ortesi attiva monolaterale per l’assistenza della flesso estensione delle articolazioni di ginocchio e caviglia dell’arto sano ed è denominato Knee-Ankle-Foot Orthosis (KAFO).

    L’orto-protesi permette all’amputato di svolgere compiti motori quali camminare (anche su superfici inclinate), salire/scendere gradini, alzarsi in piedi e sedersi con un ridotto sforzo fisico. Questo è possibile grazie al fatto che la protesi ha giunti attivi e l’ortesi attiva è in grado di fornire potenza meccanica alle rimanenti articolazioni dell’arto amputato e a quelle dell’arto sano.

    In aggiunta, l’amputato può interagire con il sistema robotico in modo intuitivo (quindi con un basso sforzo mentale) perché il sistema di controllo di CYBERLEGs permette alla macchina di avere un comportamento semi-autonomo: una volta che la macchina identifica l’intento motorio dell’amputato attraverso una rete di sensori indossabili, i comandi motori agli attuatori della protesi e dell’ortesi sono generati attraverso l’utilizzo di differenti primitive motorie per i differenti compiti motori della locomozione.

    Di seguito vengono presentate nel dettaglio tutte le caratteristiche del progetto: meccanica, sistema meccatronico, sistema di attuazione, sistema di controllo, algoritmi di controllo, sistema sensoriale e macchina a stati finiti. 

     


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