L’encefalo, comunemente ma inappropriatamente chiamato cervello, è una delle strutture più complesse e affascinanti del corpo umano. Il suo studio ha avuto inizio da molti anni, ma la sua conoscenza non è ancora per niente completa. Con i suoi 86 miliardi di neuroni, ognuno collegato da migliaia di vie diverse, forma le sinapsi. Queste ultime sono responsabili di una serie di funzioni, ma oggi metteremo il focus sui ricordi. È infatti stato dimostrato che i ricordi hanno una rappresentazione fisica: l’engramma. Grazie a questa e altre conoscenze la nostra comprensione di come funzionano i ricordi e la memoria si è piano a piano sviluppata e il quadro generale della tematica comincia ad essere più esteso e compiuto. Cosa sappiamo dunque su queste affascinanti realtà?
Ogni engramma viene come immagazzinato da un network di neuroni collegati. Questo “oggetto” può quindi essere visualizzato tramite delle innovative tecniche. Il metodo si basa sull’inserimento di particolari geni abbinati a una proteina verde fluorescente che si illumina in particolari situazioni, ovvero quando un ricordo viene “recuperato”. Un recente studio ha poi dimostrato che le regioni in cui si trovano questi engrammi, però, non riguardano solo ippocampo e corteccia, come ipotizzato finora. Per essere considerate parte di un engramma queste zone devono attivarsi sia in fase di scrittura che durante il recupero del ricordo. Le aree che soddisfano questi requisiti sono 117 e si estendono anche a zone talamiche, corticali e del mesencefalo.
Il percorso verso la conoscenza dei ricordi ha inizio a fine del diciannovesimo secolo, quando grazie ai primi microscopi è stato possibile identificare dei singoli neuroni. Il lavoro è quindi proceduto alla ricerca delle strutture sinaptiche, identificate a metà del ventesimo secolo grazie ai microscopi elettronici. Per l’osservazione della formazione di sinapsi, invece, bisogna aspettare l’inizio dell’attuale secolo con l’aiuto dei microscopi a due fotoni. Passando poi proprio ai ricordi, l’osservazione della loro formazione in un essere vivente è molto recente.
A inizio 2022 un gruppo di ricercatori dell’Università della California è riuscito a mappare il processo di formazione di un ricordo in un pesce zebra. Per mimare un processo di apprendimento gli studiosi hanno allenato i pesci ad associare l’accensione di una luce con il fatto di essere riscaldati da un laser infrarosso, cosa che questi animali cercano di evitare nuotando via. I pesci dimostravano quindi di aver imparato l’associazione muovendo la coda, dando inizio alla loro “fuga” dalla fonte di pericolo. Nel giro di cinque ore dall’inizio dell’allenamento i ricercatori hanno cominciato a osservare cambiamenti significativi nel cervello di questi piccoli pazienti. Grazie a delle particolari sonde e a un microscopio sviluppato ad hoc, infatti, è stato possibile ricavare centinaia di immagini utili per lo studio della tematica dei ricordi.
L’osservazione principale ricavata è stata che, contrariamente a quanto si è sempre pensato, nel processo di apprendimento non si rafforzano delle sinapsi già esistenti, ma queste vengono distrutte e ricostruite in altre zone. In pratica cambia il numero netto di sinapsi presenti, e non se ne modifica invece la forza.
Esistono poi altre conoscenze a nostra disposizione. Ad esempio, sappiamo che i neuroni “gareggiano” tra di loro per acquisire i ricordi e immagazzinarli negli engrammi. Grazie a uno studio è stato infatti dimostrato che i neuroni più eccitati sono quelli che andranno a formare l’engramma ed è poi stato osservato che in un primo momento questi hanno anche un effetto inibitorio sui fratelli vicini, che in una finestra temporale iniziale non possono quindi venire coinvolti in altri engrammi.
La perdita di memoria non è associata alla totale e repentina eliminazione dell’engramma. È stato infatti dimostrato che quest’ultimo rimane presente, ma risulta mancante delle connessioni sinaptiche valide a tenere vivo il ricordo. In un recente studio è stato dimostrato come dopo la perdita di memoria si entra in uno stato intermedio tra la completa mancanza di informazioni sull’argomento e lo stato di apprendimento compiuto. In questa “zona grigia”, poi, è possibile ripristinare il ricordo con dei tempi molto inferiori a quelli che sono stati necessari per imprimere la conoscenza nel primo momento. Il gruppo di ricerca ha anche cercato di osservare l’attività cerebrale associata al processo. È quindi stato osservato che due componenti svolgono un ruolo fondamentale: un recettore AMPA e un recettore di tipo II della serotonina. Il primo, quindi, diminuisce la velocità con cui si entra in quest’area grigia, mentre il secondo la aumenta.
I ricordi sono entità del tutto instabili e questa caratteristica è cruciale per l’apprendimento, che altrimenti sarebbe impossibile. Qualche anno fa un gruppo di ricerca ha geneticamente alterato dei cervelli di topi per riuscire a visualizzare i neuroni attivati nel processo di apprendimento. Quest’ultimo è infatti associato all’attivazione del gene ChR2, che i ricercatori avevano marcato con una proteina verde fluorescente. In un primo momento, quindi, sono stati individuati i neuroni attivati dal processo di apprendimento. Questa conoscenza è poi stata sfruttata per illuminare nuovamente questi geni al fine di riattivarli e inserire dei nuovi falsi ricordi.
In particolare, i topi sono prima stati inseriti in delle gabbie triangolari, cosa che ha attivato dei particolari geni ChR2. I topi sono quindi stati spostati in delle nuove gabbie quadrate, dove sono state somministrate delle scosse ai loro piedi mentre venivano riattivati i neuroni associati al primo ambiente. I topi hanno dunque associato il ricordo della scossa alle gabbie triangolari e sono quindi diventati spaventati da un ambiente in cui, in realtà, non era successo nulla di pericoloso. Questo tipo di pratica non può ovviamente essere ripetuta su cervelli umani, ma dimostra la facilità con cui è possibile manipolare i ricordi.
I ricordi possono essere ricostruiti tramite degli “scanner” del cervello. In una ricerca condotta da Brice Kuhl a dei partecipanti sono state assegnate una serie di immagini da guardare. Durante l’esecuzione di questo semplice compito, quindi, i loro cervelli sono stati monitorati tramite risonanza magnetica per controllare le aree attivate nel processo. È quindi stato implementato un algoritmo che fosse in grado di indovinare l’immagine vista dal soggetto e anche di ricostruirla in base all’attività cerebrale individuata. L’algoritmo è risultato anche in grado di ricostruire le immagini mentre queste venivano ricordate, e non solo durante la concreta osservazione delle stesse. La ricerca condotta è stata solo preliminare, ma ha aperto una serie di possibili interpretazioni e implementazioni future.
L’affascinante studio della memoria è ancora una sfida aperta con numerose incognite da determinare. Scoprire come i ricordi si formano, dove si localizzano e tutti gli altri elementi correlati a questi processi ci consentirebbe di avere sempre più consapevolezza di come funziona il nostro cervello. La memoria, poi, svolge un ruolo cruciale nella definizione della nostra identità e le malattie correlate alla sua perdita risultano particolarmente invalidanti, basti pensare all’Alzheimer. Ulteriori studi e ricerche potrebbero pian piano aiutare a chiudere il quadro e donerebbero nuove potenziali vie di cure per queste patologie. Rimangono una serie di misteri da risolvere, ma la scienza è in continua evoluzione!