La stimolazione cerebrale profonda (DBS, Deep Brain Stimulation) è una tecnica chirurgica che prevede dapprima l’impianto di elettrocateteri a livello cerebrale, in corrispondenza di particolari zone, e successivamente la stimolazione elettrica costante, in modo paragonabile ai pace-maker.
Questo trattamento, a partire dal 2002 (data dell’approvazione da parte dell’FDA), è stato impiegato soprattutto per pazienti affetti da malattia di Parkinson, ma anche per l’epilessia. In entrambe le patologie gli stimoli aiutano a regolare l’attività cerebrale compromessa dalla patologia e gli effetti ottenuti sono nella riduzione dei sintomi, mentre non ci sono ancora evidenze sulla possibilità di usare la stimolazione cerebrale profonda come cura.
Dati gli importanti risultati ottenuti per malattia di Parkinson ed epilessia, i ricercatori hanno suggerito l’impiego della tecnica anche per il trattamento di patologie psichiatriche. Il primo studio è stato condotto su pazienti affetti da disturbo ossessivo compulsivo, ambito in cui si sono ottenuti buoni risultati, rendendo la DBS una valida alternativa per i casi più gravi e resistenti. Negli anni, sono poi stati effettuati una serie di trials clinici per altre patologie, tra cui anoressia nervosa e depressione. Ed è proprio per quest’ultima che si hanno avuto recentemente nuovi sviluppi e successi.
I primi trials risalgono infatti al primo decennio del secolo, quindi negli anni successivi all’introduzione della tecnica. Tuttavia, i primi pazienti trattati erano molto pochi e i risultati incerti, anche perché non erano ancora completi degli effetti a lungo termine. Tra gli studi più importanti dell’ultimo periodo figurano le ricerche di follow-up del team di Mahendra Bhati, un medico psichiatra dell’università di Stanford. Analizzando 8 casi di pazienti trattati dal 2009, ha evidenziato come questi abbiano ottenuto un miglioramento del 50% (per la valutazione è stata usata la scala MADRS, comunemente impiegata per valutare la gravità del disturbo).
Mentre nelle applicazioni per la malattia di Parkinson e l’epilessia vengono impiegati degli stimoli prestabiliti e costanti, nel caso della depressione questo approccio non è risultato il più funzionale. È quindi necessaria una strategia creata ad hoc, data la complessità di circuiti coinvolti nella sintomatologia. Si parla quindi di approcci “a circuiti chiuso”, ovvero strategie in cui è necessaria la rilevazione di alcuni segnali trigger, detti biomarker, che evidenzino l’insorgere dei sintomi e che attivino quindi la stimolazione nel sito più adatto allo scopo con modalità progettate in base alle esigenze.
Ciò è fondamentale nel trattamento della depressione, che seppur accomunata da dei sintomi comuni, risulta diversa da paziente a paziente. La somministrazione di stimoli in modalità discontinua permette inoltre di preservare la batteria del dispositivo e di ridurre gli effetti collaterali del trattamento.
Il caso più promettente è quello di Sarah, una paziente di 36 anni con depressione maggiore presente dall’infanzia e resistente ai trattamenti, curata dai ricercatori dell’Università della California. La valutazione iniziale della sua condizione con la scala MADRS era di 36 su 45 e nessun approccio farmacologico o psicoterapico aveva migliorato la sua condizione. Al fine di progettare la strategia più adeguata, i medici hanno prima monitorato i segnali cerebrali della paziente per 10 giorni, in modo da individuare le zone e gli stimoli coinvolti nella comparsa dei sintomi.
È stato quindi compreso come l’amigdala fosse l’area in cui effettuare la rilevazione dei segnali, mentre la stimolazione di capsula interna e striato ventrale, programmata a impulsi di 6 secondi, fosse quella che dava i migliori risultati a livello sintomatico.
Si è quindi impiantato il dispositivo e, in un primo monitoraggio, è subito stato evidente che la scelta fosse adeguata, in quanto i segnali rilevati a livello dell’amigdala si sono confermati coerenti con la comparsa dei sintomi e dunque degli ottimi trigger per l’attivazione della stimolazione. Nel primo follow-up, avvenuto a 12 giorni dall’operazione, la valutazione della severità della patologia con la scala MADRS è scesa a 12, per poi raggiungere punteggi sotto il 10 nei mesi successivi (valori assunti come segnale di remissione della malattia).
In un’intervista rilasciata al New York Times la paziente ha affermato che nel post-impianto ha “riso per la prima volta dopo 5 anni” e che è riuscita a recuperare quei gesti essenziali e quegli hobby che erano offuscati da pensieri suicidi. La paziente ha anche affermato che le sensazioni sono ancora presenti, ma in modo più tollerabile e non più persistenti come un tempo.
Un risultato simile è stato ottenuto all’UT Southwestern (Università del Texas): il paziente è John, un uomo di 37 anni con depressione resistente ai trattamenti. Lo studio si è svolto in maniera analoga a quello precedente e anche in questo caso gli esiti sono stati molto promettenti.
Per verificare che i miglioramenti non fossero dovuti a un solo effetto placebo, i ricercatori avevano previsto una fase di esperimento doppio cieco, ovvero in cui né il paziente né gli studiosi dei risultati sono a conoscenza della fase in corso. Quello che hanno osservato è che, nel periodo in cui la stimolazione è stata ridotta i sintomi depressivi erano nuovamente peggiorati, per poi ritornare a migliorare alla riattivazione, confermando il ruolo decisivo della stimolazione.
Il paziente, che è stato sottoposto all’intervento da sveglio, al fine di monitorare e modulare i segnali sin da subito, ha affermato di aver avuto la sensazione di pensare più lucidamente già dalle prime stimolazioni in sala operatoria. La remissione della malattia è avvenuta dopo 4 mesi, un tempo davvero ridotto se confrontato ai 10 anni di patologia.
Dato il successo ottenuto con questo caso verranno ora coinvolti altri 12 pazienti tra l’Università di Baylor e l’UT Southwestern, ognuno con un pattern di stimoli progettato ad hoc in base alle condizioni ed esigenze. Si tratta ancora di risultati isolati, quindi non sufficienti a rendere la pratica di comune applicazione clinica. Tuttavia questi, insieme agli studi di follow-up dell’ultimo periodo e ai trials in partenza, aprono un vasto ambito di ricerca i cui risultati potrebbero regalare una nuova vita a quei pazienti che, come accadeva per Sarah e John, si trovano bloccati da anni in una patologia che sembra non dar loro speranze.
A cura di Linda Carpenedo.