I lavoratori che operano in ambito radiologico sono tenuti ad indossare dispositivi per monitorare la loro esposizione alle radiazioni ionizzanti. Per ottenere i dati raccolti da questi strumenti, chiamati dosimetri, sono spesso necessari tempi molto lunghi. Inoltre, i dosimetri forniscono una misura dell’esposizione alle radiazioni ma non degli effetti delle radiazioni sul tessuto biologico. I ricercatori della Purdue University hanno sviluppato un nuovo sensore che sfrutta un innovativo meccanismo di trasduzione che consente di ottenere risposte rapide sui danni da radiazioni utilizzando l’attività metabolica delle cellule di lievito.
Il dispositivo è monouso, indossabile, economico e le sue possibili applicazioni non si limitano all’ambito ospedaliero. Il sistema potrebbe essere infatti adottato anche dai lavoratori delle centrali nucleari e dalle vittime di disastri nucleari.
Nonostante i dispositivi di protezione riescano a mantenere all’interno di una gamma sicura l’esposizione alle radiazioni del personale ospedaliero, l’assorbimento di una bassa dose di radiazioni è inevitabile. Se tale dose si insinua al di sopra delle linee guida, c’è il rischio di sviluppare condizioni come cancro, cataratta, irritazione della pelle o malattie della tiroide. Per tale motivo è indispensabile che i dipendenti dispongano di particolari sensori in grado di quantificare la dose di radiazioni a cui sono esposti. Questi dispositivi prendono il nome di dosimetri.
I dati raccolti dai dosimetri vengono analizzati dall’azienda produttrice solitamente a scadenza mensile e spesso è necessario attendere settimane prima che l’ospedale riceva il rapporto.
I ricercatori della Purdue University hanno realizzato un sensore che permette di effettuare misurazioni più rapide ad un costo decisamente economico. Il dispositivo si presenta come un sottile film realizzato con carta freezer, alluminio e cellule di lievito.
Il vantaggio sta nella risposta rapida e misurabile del lievito alle radiazioni: maggiore è la dose di radiazioni, maggiore è la percentuale di cellule di lievito morte. Semplicemente aggiungendo una goccia d’acqua è possibile attivare la fermentazione delle cellule di lievito ancora vive. La fermentazione provoca, oltre al rilascio dell’anidride carbonica, la comparsa di ioni con conseguente aumento della conducibilità elettrica del lievito. Misurando mediante un sistema di lettura la variazione nel tempo delle proprietà elettriche del lievito è dunque possibile quantificare il danno dovuto all’esposizione alle radiazioni. I ricercatori stanno lavorando per rendere possibile la misurazione mediante un tablet o uno smartphone.
C’è un altro vantaggio: il lievito è noto per essere geneticamente simile al tessuto umano, ragion per cui i dati ottenuti dal sensore possono facilitare la comprensione degli effetti delle radiazioni sul DNA e le proteine umane.
Nel lievito, sembra che le radiazioni colpiscano principalmente le pareti cellulari della membrana e dei mitocondri. Poiché i biologi hanno già familiarità con il lievito, è più probabile che comprendiamo che cosa causa gli effetti biologici delle radiazioni nella materia organica.
Ha dichiarato uno dei ricercatori, Manuel Ochoa.
I dettagli della ricerca sono rinvenibili in Advanced Biosystem.