Forse sembrerà strano ma dopo il lockdown molte persone sono rimaste a casa. Infatti, nonostante i mass media abbiano mostrato immagini di assembramenti in spiagge e discoteche per tutta l’estate, dai dati della Società Italiana di Psichiatria (SIP) si stima che siano stati circa un milione gli italiani che hanno avuto difficoltà a uscire dalle proprie mura domestiche. Questo fenomeno prende il nome di “sindrome del prigioniero”.
La sindrome del prigioniero (o cabin fever) è un fenomeno che può manifestarsi in seguito a lunghi periodi di distacco dalla realtà – come appunto quello a cui siamo stati sottoposti in occasione del lockdown – accompagnato dalla tendenza ad avvertire un senso di disagio, inquietudine o ansia quando si torna a uscire da casa. L’origine del termine sembra risalire al 1900, epoca della corsa all’oro negli Stati Uniti d’America, durante la quale i cercatori d’oro erano costretti a trasferirsi stabilmente in alcune località del Nord America dove gli inverni erano talmente rigidi da costringerli a vivere isolati per molti mesi all’interno delle loro capanne. Con l’arrivo della primavera, quando dovevano riprendere il lavoro, i cercatori mostravano sintomi di disorientamento, angoscia e paura anche in assenza di minacce, inducendoli a perpetuare l’isolamento.
“Probabilmente è una modifica temporanea, ma bisogna prenderne atto” ha affermato Laura Guaglio, psicologa e psicoterapeuta specializzata in gestione e superamento di eventi traumatici ed emotivamente stressanti, “la situazione che stiamo vivendo è talmente eccezionale e collettiva che il comprensibile timore, più o meno accentuato, di uscire di casa può essere una delle più comuni reazioni anche da parte di quelle persone che potremmo definire ‘emotivamente equilibrate’. La nuova realtà è impattante, può sconcertare, disorientare, potremmo rigettarla. A cui si sommano le paure sulle probabilità di un eventuale contagio”.
Come già accennato tra le cause c’è sicuramente la paura del mondo esterno, poiché percepito come insidioso. A generarla non è solo il rischio di ammalarsi ma anche la possibilità di contagiare i propri cari. Inoltre, tale paura è dettata anche dal timore di non ritrovare il mondo che conoscevamo e nel quale ci sapevamo barcamenare ma anche dalla “non-accettazione” del dover convivere con mascherine, distanziamento sociale e altre misure di prevenzione a volte limitanti. Individualmente tutti possiamo agire per ridurre i potenziali impatti emotivi, psicologici e sociali che ha comportato COVID-19 con il suo avvento, ma come?
Un ulteriore accorgimento da non sottovalutare è l’accesso a informazioni accurate e realistiche sulla pandemia che potrebbe aiutare a evitare di sviluppare ansie, paure o isteria e ad accettare e metabolizzare quello che sta realmente succedendo.
È importante rispettare i propri tempi, i propri vissuti emotivi e conservare le abitudini “positive” riscoperte in quarantena e ricordare a se stessi che le emozioni sono completamente valide.
Articolo a cura di Giulia Scannapieco.