L’uomo non può vivere su altri pianeti oltre alla terra, o almeno, questo suggeriscono le ricerche recentemente pubblicate su Nature. Sin dalle prime spedizioni condotte nello spazio per lunghi periodi, infatti, si era notato un importante danneggiamento nei globuli rossi degli astronauti. Questo causa “un’anemia spaziale”, dall’inglese, space anemia. Si è pensato a lungo che si trattasse di una condizione dovuta allo spostamento dei fluidi nella parte superiore del corpo, ma grazie allo studio condotto dall’Università di Ottawa ora sappiamo che non è così.
Lo studio è stato condotto su 14 astronauti che sono rimasti nella Stazione Spaziale Internazionale per 6 mesi. Per valutare la produzione e distruzione di globuli rossi, ovvero l’emolisi, i ricercatori hanno istruito gli astronauti per la raccolta di campioni di aria espirata e di sangue, che sono stati spediti sulla terra tramite veicoli di rientro automatizzati. Nello specifico nei primi si è misurata la quantità di monossido di carbonio (CO), dato che questa molecola viene prodotta ogni volta che un complesso eme viene distrutto. L’eme risulta essere un buon indicatore per il processo in esame, in quanto è il gruppo prostetico dell’emoglobina, la proteina dei globuli rossi. Sui campioni di sangue, invece, si sono misurati valori come la sideremia, ovvero la quantità di ferro circolante, e la ferritina.
Le analisi iniziali sono state condotte prima della partenza, il che ha permesso di dimostrare che sulla terra la produzione e distruzione di globuli rossi è di circa 2 milioni di cellule al secondo. Il test è poi stato ripetuto 4 volte nel corso della permanenza degli astronauti nella stazione spaziale. Infine le analisi conclusive sono state svolte al ritorno e un anno dopo il rientro. I primi risultati hanno dimostrato che già dopo 5 giorni nello spazio l’eliminazione di CO era aumentata del 56%. Questi dati sono stati accompagnati da un aumento nei valori di sideremia, trasnferrina e ferritina, il che è indice di anemie emolitiche, ovvero quelle correlate alla perdita di globuli rossi.
I ricercatori però non si sono fermati a questo e hanno monitorato la distruzione di eritrociti anche nei mesi successivi. Il valore si è assestato a un 54% in più rispetto a quello rilevata sulla terra, quindi di circa 3 milioni di globuli rossi al secondo. L’aumentato valore di CO trovato anche in queste indagini indica quindi che l’emolisi non è dovuta al solo ingresso nella microgravità, ma all’esposizione ad essa.
Al ritorno è stato rilevato che in 5 sui 14 astronauti era presente un’importante anemia che è stata recuperata nel giro di 4 mesi, pur rimanendo significativa la distruzione di globuli rossi. A quest’ultima, quindi, è necessariamente associata anche un’aumentata attività di produzione delle cellule. Senza ciò, infatti, non sarebbe possibile tornare ai normali livelli di eritrociti mantenendo un’emolisi così alta. A un anno di distanza, poi, la distruzione di globuli rossi rimane ancora superiore del 30% rispetto ai dati precedenti la partenza. L’esposizione all’assenza di gravità comporta quindi effetti anche a lungo temine. Questi non sono permanenti, come dimostrato da precedenti studi, ma devono comunque essere tenuti in considerazione per la salute degli astronauti.
L’aumento nell’emolisi non è un problema nello spazio, dove non c’è gravità e quindi il corpo non pesa. È quando si tocca il suolo, che sia sulla terra o su un altro pianeta, che se ne percepiscono gli effetti. I tipici sintomi di questa condizione sono la mancanza di energia, resistenza e forza, ovvero fattori particolarmente rilevanti nella realizzazione di possibili spedizioni spaziali.
Grazie a questi risultati è ora chiara l’importanza di monitorare questo valore negli astronauti. In particolare, è risultato chiaro come la severità dell’anemia aumenti con la durata della missione, elemento da tenere in considerazione in vista di spedizioni particolarmente lunghe. Infine, essendo il parametro accompagnato anche da un aumentato valore nella produzione di globuli rossi, è necessario prevedere una corretta integrazione nella dieta degli astronauti.
Forse non siamo fatti per vivere su Marte, o almeno ora sappiamo che non possiamo farlo senza pensare alla salute dei nostri globuli rossi. La prossima missione dei ricercatori è cercare di indagare i meccanismi alla base di questo processo in modo da prevenirli e permetterci di continuare a sognare lo spazio.