Oggi parliamo di terapia genica con particolare interesse rivolto al campo oftalmologico; in particolare, presso il Policlinico Vanvitelli di Napoli, l’innovativa terapia genica oculare è stata utilizzata per trattare due bambini affetti da amaurosi di Leber, malattia congenita responsabile di cecità infantile. L’obiettivo? Restituire la vista ma non è così semplice come sembra perciò, il rallentamento della progressione della malattia o un leggero miglioramento della visione sono reputati già degli ottimi risultati.
È una malattia genetica, diagnosticabile già dai primi mesi di vita del bambino, responsabile di una marcata ipovisione, che può evolversi in completa cecità con il passare degli anni, in concomitanza è presente un continuo e involontario movimento degli occhi, noto come nistagmo. La trasmissione genitori-figlio avviene con modalità autosomica recessiva, ovvero affinché la malattia si manifesti, occorre ereditare le due copie alterate del gene coinvolto da entrambi i genitori, che sono invece portatori sani. Solitamente, esami come l’elettroretinogramma, che mira a valutare l’attività dei fotorecettori retinici quando stimolati da un fascio luminoso, e l’analisi genetica aiutano nella diagnosi dell’amaurosi congenita di Leber.
Ma quali sono le cause? Come suggerisce il nome della malattia stessa, la manifestazione è dovuta all’alterazione di alcuni geni che diventano “difettosi” (già questo ci permette di capire le potenzialità della terapia genica oculare); in particolare, si conoscono 15-20 geni associati all’amaurosi congenita di Leber che possono “modificarsi”: nel nostro caso, le mutazioni riguardano il gene CEP290, di cui la mutazione p.Cys998X ha la più alta prevalenza che causa uno scorretto splicing (procedura naturale di rimozione degli introni del filamento del RNA che rappresentano regioni non codificanti del gene). Quindi, trovandosi con un filamento di RNA sbagliato, la cellula non è in grado di sintetizzare una proteina CEP290 funzionante, essenziale per la vista.
Come abbiamo detto, la malattia di Leber è causata da un’alterazione genetica, quindi, risulta più semplice capire perché il trattamento con terapia genica oculare ha delle grandi potenzialità nell’aiutare a migliorare la qualità della vista, nonché della vita, dei bambini affetti. Nello specifico, ricordiamo che per terapia genica si intende il trasferimento di un gene funzionante all’interno di un organismo al fine di curare una patologia causata dall’assenza o dal difetto di uno o più geni mutati; questo limita l’applicazione della tecnica ad alcuni tipi di malattie escludendo le patologie causate dal malfunzionamento del singolo gene. L’editing genomico, la cui più recente tecnica del CRISPR-Cas9 ha permesso la vittoria del Nobel per la Chimica, interviene proprio in questo caso, permettendo la sostituzione, lo spegnimento, la modifica di un particolare gene mutato agendo in siti specifici.
L’occhio è un ottimo bersaglio per la terapia genica oculare perché presenta un’anatomia ben definita su cui si può lavorare con facilità vista la semplice accessibilità. Gli aspetti di cui tener presente sono tre: la via di somministrazione, il sistema di erogazione e l’uso di specifici elementi promotori. Nel primo caso, ci sono diverse alternative che dipendono dalle cellule bersaglio e dalle caratteristiche del vettore utilizzato; nel caso di Napoli, la somministrazione è stata intravitreale, molto veloce e poco fastidiosa perché eseguita in anestesia topica mediante l’applicazione di colliri anestetici.
Per quanto riguarda il trasporto, inteso come il mezzo che contiene il gene sano che si occupa “della consegna”, esistono diversi vettori tra cui adenovirus, virus adeno-associati, retrovirus e lentivirus. Quest’ultimi sono vettori a RNA, utilizzati nella terapia genica oculare a Napoli, per il trasporto di Sepofarsen (entrato nella fase 2/3 di sperimentazione) che agisce legandosi all’RNA CEP290 mutato per consentire il corretto splicing, così da permettere la sintetizzazione della proteina responsabile della vista. La bambina sta bene, il percorso riabilitativo è lungo, la malattia non è progredita ma, anzi, i miglioramenti sono stati già evidenti e già lei pensa al futuro chiedendo al padre: “Da grande, potrò guidare l’auto?”.