La terapia optogenetica è una branca delle neuroscienze che si focalizza sulla manipolazione di proteine e cellule con la luce. Sviluppata all’inizio degli anni 2000, l’optogenetica è una tecnologia particolarmente avanzata applicata sia in vitro su cellule sia in vivo su modelli animali e che ha portato ad importanti scoperte sul funzionamento del cervello. Nonostante il miglioramento delle tecniche, questo metodo non ha ancora visto la sua applicazione negli esseri umani, almeno fino ad ora. In un lavoro pubblicato sulla rivista Nature Medicine, un gruppo di ricerca che ha coinvolto scienziati da Parigi, Pittsburgh e Basilea ha riportato il primo caso in assoluto di recupero parziale della vista in un paziente affetto da retinite pigmentosa dopo terapia optogenetica.
L’optogenetica è una metodologia che utilizza la luce per modulare eventi molecolari in modo mirato in cellule o organismi viventi. Si basa sull’utilizzo di proteine geneticamente codificate che cambiano conformazione in presenza di luce per alterare il comportamento cellulare. In questo modo è possibile provocare o inibire eventi ben definiti nelle cellule. Ad esempio, è possibile indurre un cambiamento nelle cellule eccitabili, modificando il potenziale di tensione di membrana. Ma non solo, si possono anche controllare comportamenti specifici negli animali, come l’attivazione o il blocco delle risposte di paura o dolore e dedurre quali sono i contributi delle singole cellule a tali comportamenti.
Di recente, un gruppo di ricerca americano ha mostrato come l’optogenetica possa essere sfruttata per controllare l’attività sociale nei topi.
Il lavoro pubblicato sulla rivista Nature Medicine descrive il progresso di un paziente francese a cui quarant’anni fa è stata diagnosticata la retinite pigmentosa. Si tratta di una malattia neurodegenerativa progressiva che distrugge le cellule fotosensibili della retina e che porta alla completa cecità. Dal momento che questa patologia è causata da mutazioni in più di 71 geni diversi, lo sviluppo di terapie geniche per poter riparare il meccanismo cellulare “rotto” è particolarmente impegnativo e non molto efficace.
Per questa ragione, i ricercatori hanno cercato di affrontare il problema da un’angolazione completamente diversa: invece di correggere i geni mutati uno per uno nelle cellule che rispondono alla luce attivando le cellule nervose nella retina, hanno deciso di attivare direttamente le cellule nervose. È qui che entrano in gioco gli strumenti optogenetici.
I ricercatori hanno introdotto nell’occhio del paziente un vettore associato ad adenovirus che trasportava informazioni genetiche che codificano una proteina sensibile alla luce. Questa proteina prende il nome di channelrhodopsin ChrimsonR. Essa si trova in alghe incandescenti in natura e risponde alla luce modificando la propria forma e consentendo il flusso di ioni dentro e fuori le cellule. Il flusso di ioni attiva le cellule e, nel caso di neuroni ingegnerizzati per esprimere le canalrodopsine, fa sì che si attivino e trasmettano il segnale attraverso le terminazioni nervose al cervello.
Per questo studio, i ricercatori hanno scelto la proteina ChrimsonR per la sua preferenza per l’attivazione da parte della luce color ambra, che è più sicura e causa una minore costrizione della pupilla rispetto alla luce dello spettro blu.
Il costrutto inoculato nel paziente prende di mira le cellule gangliari della retina, ovvero neuroni che raccolgono segnali da coni e bastoncelli e li trasferiscono attraverso il nervo ottico al cervello. Una volta a destinazione, le informazioni vengono elaborate per essere percepite come un’immagine visibile.
Quindi, per attivare le cellule gangliari, gli scienziati hanno dovuto escogitare un modo per riuscire a trasformare la luce che rimbalza sugli oggetti nel nostro ambiente in una singola lunghezza d’onda nello spettro dell’ambra. Per fare ciò, hanno utilizzato occhiali speciali dotati di una fotocamera che rileva i cambiamenti nell’intensità della luce pixel per pixel come eventi distinti. L’immagine trasformata dalla telecamera viene proiettata sottoforma di impulsi di luce discreti sulla retina in tempo reale.
Dopo un periodo di adattamento, il paziente è stato in grado di individuare, identificare e contare diversi oggetti utilizzando l’occhio trattato mentre indossava gli occhiali. La vista acquisita in seguito al trattamento non è esattamente come quella naturale: il campo visivo è più ristretto e per allargarlo è necessario che il paziente sposti la testa. Nonostante ciò, il risultato ottenuto è notevole e assolutamente promettente.
Questo studio pone le prime basi sulla possibile applicazione dell’optogenetica in pazienti con diffetti alla vista a causa di malattie genetiche. Si tratta di un primo passo nel comprendere meglio questa tecnologia e su come, in futuro, sarà possibile applicarla sull’uomo per curare diverse patologie. Proprio per questo, ulteriori studi saranno necessari per riuscire a raccogliere più dati sulla sicurezza e l’efficacia a lungo termine. Questo aiuterà gli scienziati a delineare un quadro più completo sull’applicazione di questo nuovo approccio terapeutico in clinica.