Oltre a scontrarsi con la carenza di dispositivi di protezione individuale a cui si sta cercando di far fronte con la progettazione di mascherine riutilizzabili (ne sono un esempio quelle realizzate in Sicilia e a Bergamo) e di strumenti per la sterilizzazione, tutto il mondo sta facendo i conti anche con l’insufficienza dei cosiddetti tamponi, i kit per il rilevamento del virus all’interno delle mucose delle persone. Conoscere quante persone sono positive al coronavirus è indispensabile per capire come il virus si sta muovendo attraverso la popolazione, per stabilire se il contagio è in crescita o in calo e per riconoscere in anticipo quello che potrebbe diventare un focolaio di infezione. Insomma fare più tamponi potrebbe essere un modo per permetterci di tornare a una vita quanto più normale il prima possibile. Per ovviare alla difficoltà di sottoporre al tampone grandi numeri di persone e di procedere alla successiva analisi dei campioni prelevati, alcuni gruppi di ricercatori in Israele, in Germania, a Stanford e in Corea del Sud hanno pensato di ridurre il numero di test da condurre per identificare chi ha contratto il Covid-19 e di sfruttare gli algoritmi. In che modo? Con i pooled test.
I pooled test, che in italiano possiamo tradurre con l’espressione test aggregati, si basano su una semplice idea di base: i campioni biologici provenienti da diverse persone possono essere aggregati in modo da essere analizzati una sola volta.
Se il campione risulta negativo è possibile escludere tutta la popolazione sottoposta al test grazie a quell’unica analisi; se il campione è positivo si procede ad approfondire la ricerca del soggetto malato dividendo la popolazione in sottogruppi.
Dror Baron, professore associato di ingegneria elettrica e informatica all’Università del Nord Carolina ha compiuto un passo successivo. Il suo team di ricerca sta infatti studiando degli algoritmi che, analizzando i risultati dei test aggregati, possano ulteriormente ridurre i tempi per individuare le persone positive. In un’intervista a IEEE Spectrum ha spiegato la differenza tra gli algoritmi utilizzati solitamente per questa tipologia di analisi e quello più moderno su cui sta lavorando.
Un approccio più tradizionale con cui si può lavorare sui test aggregati sono gli algoritmi adattivi. Per spiegare come funzionano Baron prende come esempio un campione di 100 persone. Supponendo che l’incidenza del Covid-19 sia dell’1%, il campione aggregato estratto dalle 100 persone risulta essere positivo. Il gruppo di 100 individui viene quindi suddiviso in sottogruppi da 20 persone ciascuno, il che richiede l’esecuzione di altri 5 test aggregati. Questo porta a individuare il gruppo da 20 persone contente il soggetto positivo. Altri 20 tamponi permetteranno infine di stabilire quale sia la persona malata. Riassumendo, partendo dal campione di 100 persone e dal dato dell’incidenza dell’1%, per individuare la persona positiva sono necessari 25 test, eseguiti in due fasi diverse.
Il numero di test potrebbe essere ulteriormente ridotto se, una volta identificato il gruppo da 20 persone positivo, questo venisse ulteriormente suddiviso in 4 sottogruppi da 5 persone.
Individuato il campione positivo, i campioni estratti dalle 5 persone che lo compongono verrebbero analizzati singolarmente, arrivando ad un totale di 14 test, eseguiti questa volta in tre fasi successive. Questa tipologia di algoritmo prende il nome di algoritmo adattivo poiché si utilizzano informazioni provenienti da test precedenti per determinare quale debba essere il campione successivo da analizzare. Sebbene il numero di test sia notevolmente ridotto rispetto ad un protocollo di testing tradizionale (25 o 14 test contro i 100 test che sarebbero stati eseguiti singolarmente), secondo Baron gli algoritmi adattivi presentano lo svantaggio di essere articolati in più fasi (nel caso dei 25 test in 2 fasi; nel caso dei 14 test in 3 fasi) e di richiedere quindi più tempo rispetto ad approcci più moderni.
Partendo dallo stesso campione di 100 persone, fra i quali, come nel caso precedente, sappiamo essere presente 1 persona malata, l’approccio più moderno prevede di suddividere il gruppo di 100 persone in sottogruppi casuali da 30 persone ciascuno, in modo che ogni persona venga sottoposta a 6 test. Se vogliamo analizzare il campione di ciascuna persona 6 volte, sarà necessario formare e analizzare in totale 20 sottogruppi (100 x 6= 600 / 30 = 20), ognuno dei quali sarà composto da una combinazione di individui differenti rispetto agli altri gruppi. I 20 test aggregati, che sono eseguiti in un’unica fase e comportano quindi un notevole risparmio di tempo, sono sufficienti perché l’algoritmo non adattivo riesca a individuare il soggetto positivo. La procedura inizia a complicarsi se le persone positive all’interno del campione sono molteplici. Uno studio statunitense (che non è ancora stato sottoposto alla peer- review, la valutazione paritaria da parte della comunità scientifica) ha dimostrato che algoritmi del genere diventano inaffidabili nel momento in cui l’incidenza della malattia risulta maggiore del 4%.
Baron ritiene che i pooled test potrebbero rappresentare un metodo rapido ed efficace per escludere la presenza del Covid-19 tra i passeggeri che devono salire su un aereo, tra i dipendenti di un’azienda o in generale tra un gruppo di persone in procinto di riunirsi in uno spazio chiuso. Come abbiamo visto, l’unico limite di questo approccio consiste nel fatto che gli algoritmi non adattivi risultano pienamente affidabili solo quando si suppone che la maggior parte delle persone sottoposte all’analisi saranno negative.