Ormai ne siamo consapevoli: siamo nel pieno della quarta ondata. Lo confermano i dati: oltre due milioni di positivi e i contagi in continuo aumento (ieri ci sono stati 184615 nuovi casi). Siamo bombardati dalle notizie sulla trasmissibilità della variante Omicron, che sembra essere la principale responsabile degli attuali numeri del virus. Ma prima di Omicron c’era stata la Delta (che comunque non è ancora scomparsa nel nostro paese) e prima ancora la Alfa. Ma cosa sono le varianti del Covid? E cos’è il sequenziamento?
Partiamo dai virus. Si tratta di microrganismi composti da un acido nucleico, nel caso del SARS-CoV-2 di RNA, che codifica per il loro comportamento e la loro moltiplicazione. Sulla membrana, poi, i virus presentano delle proteine in numero variabile. Si parla di variante quando il virus muta nel proprio patrimonio genetico mentre si moltiplica nelle cellule dell’organismo che lo ospitano. Questo avviene perché il virus, una volta entrato all’interno delle cellule grazie alle proteine presenti sulla propria membrana, rilascia il proprio genoma che viene riprodotto dalla cellula. Il processo è però soggetto a errori, ovvero le copie prodotte possono differire dallo “stampo” originale. Le varianti, in particolare nel caso del Covid, non sono sempre pericolose o dannose, ma lo diventano quando le modifiche causate dalla mutazione rendono il virus più capace di infettare o di dare sintomi più gravi.
Per riconoscere le varianti l’esame necessario è il sequenziamento. Tramite questa tecnica è possibile determinare l’intero patrimonio genetico del virus con precisione. Questa analisi viene svolta in alcuni centri specializzati su gruppi selezionati in ogni regione con il coordinamento dell’istituto Superiore di Sanità.
Nel primo periodo della pandemia il virus è circolato in una forma piuttosto stabile, con una serie di mutazioni che non hanno provocato grandi cambiamenti rispetto alla versione originale. A partire da settembre 2020, però, le cose sono cambiate. Vediamo quali sono le varianti che più si sono fatte notare e le loro caratteristiche:
Dal 9 dicembre alla prima settimana di gennaio l’Italia ha sequenziato 4500 campioni su un milione e 800 mila positivi, che corrisponde a una percentuale dello 0.25%. Anche dall’inizio della pandemia i dati rispecchiano questi risultati: da febbraio 2020 l’Italia ha sequenziato 90995 campioni sui quasi 8 milioni di casi positivi riscontrati, un 1.2%. Questo valore è ben al di sotto della soglia consigliata dall’OMS, stabilita al 5%. In Italia i laboratori adibiti al sequenziamento sono solo 70, numero molto ridotto rispetto alla popolazione e ai tamponi esaminati ogni giorno nel nostro paese.
Roberto Battiston, docente di Fisica all’Università di Trento e suo coordinatore dell’Osservatorio epidemiologico, ha fatto notare la gravità di ciò in una recente intervista a Repubblica. Riferendosi al dilagare della variante Omicron che ha fatto “dimenticare” che la Delta è ancora presente ha dichiarato:
“Siamo convinti di combattere un solo nemico, il Covid-19, mentre attualmente siamo di fronte a due varianti molto diverse, che adottano strategie e hanno conseguenze completamente diverse.”
Ha poi aggiunto:
“Ci muoviamo quasi alla cieca, sparando con le stesse armi a bersagli molto diversi tra loro.”
L’insufficienza nel sequenziamento in Italia è ben visibile anche con Omicron, variante di cui ci siamo accorti solo quando questa era già molto diffusa nel nostro paese. Se si fosse sequenziato opportunamente, invece, sarebbe stato possibile individuarla prima del suo dilagare. Questo avrebbe lasciato dei margini di intervento, ad esempio in termini di politiche sanitarie, per limitarla.
Di certo l’Italia, nonostante i dati nel campo del sequenziamento, ha dimostrato di saper gestire l’emergenza COVID con buoni risultati. Grazie alle norme di prevenzione e alle ultime misure per quanto riguarda la vaccinazione obbligatoria sarà possibile limitare anche questa nuova ondata. Tuttavia la tematica del sequenziamento riapre la questione della ricerca.
I dati del 2021 confermano la vecchia tendenza dell’Italia a non investire in questo ambito. Rispetto alla media Europea, infatti, l’Italia investe solo l’1.4% del PIL rispetto al 2.1% dell’UE. Anche per quanto riguarda il numero di ricercatori, in Italia ce ne sono 6,3 ogni 1000 occupati contro gli 8,9 della media Europea. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, però, i risultati della ricerca italiana spiccano. Guardando la quota delle pubblicazioni che rientrano tra il 10% di quelle più citate a livello globale si ha che per l’Italia il dato è dell’11% contro il 9.9% della media europea. Dunque ottimi ricercatori e ottimi risultati che potrebbero svolgere un importante compito, se solo ci fossero più risorse dedicate.
Nel caso del sequenziamento la problematica non è correlata solo a una questione economica, ma anche ad aspetti organizzativi. Il sequenziamento, infatti, sembra andare particolarmente in crisi nei momenti di risalita dei contagi. Questo accade perché aumenta il numero dei tamponi da processare e i laboratori prediligono questa pratica rispetto al sequenziamento. Mancano quindi strutture dedicate solo al processo o, in alternativa, un numero sufficiente a mantenere attiva questa particolare analisi anche nei periodi con picchi di contagi.
Servono un sistema più esteso e investimenti nella ricerca che permetterebbero di diffondere maggiormente la tecnica del sequenziamento. Inoltre, sarebbe auspicabile darle una corretta importanza, ovvero al pari delle altre misure di contenimento. Filippo Sensi, deputato del Pd, ha correttamente riassunto:
“Il Covid ci ha messo di fronte a questa realtà, abbiamo capito quando la sanità e la ricerca siano un requisito fondamentale per un paese, una clausola di salvaguardia, una priorità rispetto al altre voci di spesa e di investimento.”
Quindi forse la pandemia qualcosa di positivo lo sta facendo: porre l’attenzione sulla ricerca e insegnarci la sua importanza. Speriamo di apprendere questa lezione.