Curiosità e consigli

Saturazione di ossigeno durante l’apnea: come e quanto varia con l’ausilio di un saturimetro

Gli ultimi mesi si sono contraddistinti per tematiche sanitarie di ogni genere che ruotano attorno ad un unico fulcro. Se da una parte si sta mettendo in gioco uno sforzo senza precedenti in merito a sviluppo di terapie mirate ed efficaci, dall’altra è possibile anche intervenire singolarmente con strategie preventive per evitare l’aggravarsi della situazione dovuta al Coronavirus. In particolare, si sta diffondendo l’utilizzo del saturimetro per misurare la saturazione di ossigeno nel sangue e valutare con anticipo complicazioni più marcate.

Da apneista certificato ho voluto approfondire la questione e misurare personalmente come e quanto variasse la saturazione di ossigeno durante, appunto, una seduta di apnea: i risultati possono sembrare allarmanti per i valori raggiunti ma non preoccupatevi, l’allenamento, la conoscenza di sé e tempi non prolungati non hanno inficiato la sicurezza di tutta la prova.

Il “saturimetro” per misurare la saturazione di ossigeno

Il saturimetro, conosciuto in gergo tecnico con il nome di pulsossimetro, è un dispositivo medico che rende possibile la misura della saturazione di ossigeno nel sangue. In questo modo sfruttiamo il dispositivo per essere consapevoli della percentuale di emoglobina satura di ossigeno, cioè legata all’ossigeno, rispetto al resto presente nel sangue. Con pochi euro e con una misura del tutto non invasiva saremo quindi in grado di ottenere importanti informazioni.

Credits: nonin.com

Il suo funzionamento si basa su semplici principi ottici, ma quello che interessa maggiormente è valutare con cura i risultati forniti. Valori tipici e considerati normali a livello di ossigenazione si attestano tra il 96% il 98% (intesi come SpO2). Brevi oscillazioni sono comunque tollerate nella misura di qualche punto percentuale, anche perché nel caso di anziani o di soggetti affetti da patologie il limite minimo di riferimento si abbassa ulteriormente. Tuttavia è il caso di preoccuparsi quando in condizioni “normali” e di “rilassamento” la percentuale scende al di sotto del 90%!

Per questo motivo, come anticipato in precedenza, monitorare in autonomia e comodità può fare davvero la differenza. Tenere sotto controllo la saturazione di ossigeno in questo periodo è quindi da ritenersi una buona prassi qualora sia abbinata ad altri sintomi influenzali.

La saturazione di ossigeno durante l’apnea

I valori descritti in precedenza di riferiscono ad una condizione per lo più di quiete o di assoluto riposo. Ma cosa succede quando misuriamo la nostra saturazione di ossigeno durante una prestazione sportiva? E se la disciplina praticata fosse proprio l’apnea volontaria? Per rispondere a questo dubbio ho sfruttato un mio allenamento di apnea, ahimè possibile in questo periodo solo a secco, quindi senza l’ausilio di mare o piscina. Per comprendere meglio tutto il discorso che segue, nonché l’esecuzione dell’intera prova, è utile fare una panoramica di alcuni aspetti magari considerati banali.

Durante le fasi immediatamente precedenti ad un’apnea cercheremo di immagazzinare quanto più ossigeno possibile con un respiro completo. Spesso infatti respiriamo in un modo scorretto, soltanto a livello toracico; una respirazione completa invece è costituita, nell’ordine, da respirazione diaframmatica, toracica e clavicolare. In questo modo riempiremo il nostro “serbatoio” di ossigeno così da poter resistere il più a lungo possibile.

PH: medicinaonline

Durante l’immersione assisteremo contemporaneamente ad una diminuzione di ossigeno e ad un aumento dell’anidride carbonica prodotta, con una velocità determinata da varie incognite tra cui lo stato di rilassamento del proprio corpo. Ovviamente in condizioni di assoluto rilassamento la diminuzione di ossigeno sarà decisamente più lenta al caso in cui si facciano movimenti bruschi o forzati. Al tempo stesso abbiamo detto che l’anidride carbonica aumenta e una volta raggiunto un determinato livello si innescano dei meccanismi d’allarme e di difesa automatici nel nostro corpo: il più comune ed evidente consiste nelle contrazioni diaframmatiche.

Tali contrazioni hanno lo scopo di rimescolare l’aria presente nei polmoni per favorire lo scambio di ossigeno a livello degli alveoli polmonari. Inizialmente sono di bassa entità e con cadenza ogni 10/15 secondi, ma con il prolungarsi dell’apnea aumentano sia in termine di velocità che di intensità, provocando uno stato di stress complicato da controllare. Ovviamente si tratta di sensazioni del tutto soggettive e sta all’abilità dell’apneista riuscire, tramite la conoscenza del proprio corpo, a riconoscere preventivamente le contrazioni e a lasciare che svolgano il proprio compito (quello appunto di rimescolare l’aria per permettere un’apnea più prolungata) senza contrastarle.

La mossa dell’iperventilazione

Ora che è chiaro cosa succede durante un’apnea, almeno a livello qualitativo, è utile introdurre il concetto di iperventilazione per capire come interviene in questo discorso. Innanzitutto l’attività respiratoria viene definita “iperventilazione” quando i volumi di aria attraverso il polmoni sono maggiori di 5 litri al minuto. In altri termini questo si verifica a seguito di un’attività forzata di inspirazioni ed espirazioni profonde, rapide e senza pause.

L’effetto decisamente più importante dell’iperventilazione è la decarbonizzazione del sangue, ossia la riduzione della pressione parziale di CO2 all’interno del sangue. Alla luce di quanto descritto in precedenza, capiamo bene che un’iperventilazione che preceda di pochi attimi un’apnea può avere delle particolari conseguenze. In primis il nostro “serbatoio” di anidride carbonica sarà molto più vuoto, e questo è da vedersi come un potenziale rischio, soprattutto se l’attività viene svolta in acqua. Così facendo il campanello d’allarme naturale viene in qualche modo offuscato: la diminuzione di ossigeno non va più a pari passo con l’aumento di anidride carbonica, responsabile delle prime contrazioni diaframmatiche, così da shiftare tutta la risposta del corpo anche di decine di secondi.

Credits: Gabriela Vinci, docplayer.it

Il risultato è sì quello di posticipare lo stato di stress indotto dalle contrazioni diaframmatiche, ma questo non si traduce necessariamente ed esclusivamente nel riuscire a resistere di più durante l’apnea: un’iperventilazione troppo forzata potrebbe allontanare a tal punto la manifestazione delle prime contrazioni da portare l’organismo ad una sincope anossica improvvisa, senza campanelli d’allarme. Per questo motivo è una pratica del tutto sconsigliata in caso di apnee effettuate con immersioni in acqua, potrebbe rivelarsi fatale!

La saturazione di ossigeno raggiunge il 59%!

Nella prova che ho effettuato ho voluto testare la saturazione di ossigeno e i battiti cardiaci durante l’apnea finale di un allenamento di circa 40-50 minuti. Vi lascio il video di tutta l’esecuzione finale con anche alcuni attimi che precedono e susseguono l’apnea stessa, in modo tale da monitorare i due valori su uno spettro più ampio. L’ausilio del grafico è utile per comprendere l’andamento nelle varie fasi.

  • 00.15: inizio dell’apnea. La saturazione di ossigeno è prossima ai valori massimi, i battiti cardiaci sono molto elevati. La causa di questa situazione è dovuta all’iperventilazione effettuata prima dell’inizio della prova; infatti, oltre alla decarbonizzazione descritta in precedenza, l’iperventilazione provoca un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa.
  • 00.30: dopo poco dall’inizio dell’apnea si instaura una condizione di quiete assoluta che favorisce il rallentamento dei battiti fino a raggiungere stabilmente un valore al di sotto dei 60 bpm. Se non avessi effettuato l’iperventilazione avrei potuto rallentare la frequenza cardiaca fino a 40-45 bpm per prevenire il dispendio di ossigeno.
  • 02.10: termina la fase di completo rilassamento. Inizia una prima resistenza leggera che può essere gestita con conoscenza del proprio corpo. In questo momento la saturazione di ossigeno inizia a calare e i bpm tornano a salire, seppur limitati entro la fascia 60/70.
  • 02.55: la prima contrazione diaframmatica. Il corpo si accorge di essere in pericolo e mette in moto i meccanismi di autodifesa, contemporaneamente il battito cardiaco inizia ad aumentare con una più ripida diminuzione della saturazione di ossigeno.
  • 03.40: l’ultima fase dell’apnea, quella più critica. I battiti cardiaci non seguono più un andamento regolare, si alzano e si abbassano con una gestione da parte mia più complicata. La saturazione di ossigeno non va molto meglio, la sua diminuzione assume decisamente un ordine di grandezza superiore: da lì a breve sarà necessario interrompere l’apnea e riprendere a respirare.
  • 04.15: termina l’apnea. Dopo 4 minuti interrompo l’apnea per riprendere fiato e far sì che i miei valori tornino ad essere accettabili. L’aspetto più curioso è legato al fatto che il minimo di saturazione di ossigeno è raggiunto dopo circa 20 secondi che ho ripreso a respirare. Questo probabilmente è dovuto ai tempi fisiologici di scambio e di trasporto di ossigeno, oltre ad un possibile ritardo di risposta dello strumento utilizzato.

Dopo un certo lasso di tempo la saturazione torna a livelli ottimi, così come i bpm tornano ad assestarsi ad una frequenza del tutto più sicura.

Che si tratti di due, di tre o di cinque minuti, l’importante del mondo dell’apnea è non essere presuntuosi. Bisogna conoscersi a fondo e avere consapevolezza di ciò che si sta facendo in ogni istante, senza avventurarsi mai al di là dei propri limiti. Un errore di valutazione lo si può pagare a caro prezzo.

Published by
Marco Ferrazzo