Trattare l’Alzheimer con gli ultrasuoni: una promettente prospettiva
Ad oggi non esiste cura per il morbo di Alzheimer: sono disponibili solamente trattamenti farmacologici volti ad alleviare i sintomi, come la perdita di memoria, ma la loro efficacia è spesso limitata dall’azione della barriera emato-encefalica (BEE). Questa, infatti, è composta da cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni del sistema nervoso centrale creando un naturale ostacolo al passaggio di tossine, ma anche di farmaci, verso il tessuto nervoso.
È qui che entrano in gioco gli ultrasuoni, che vengono indirizzati nelle profondità del cervello, sotto la guida della risonanza magnetica. L’idea di base è quella di combinare onde ultrasonore e microbolle contenenti gas precedentemente iniettate, utilizzate solitamente come mezzo di contrasto nell’imaging ecografico. Questa combinazione genera forze meccaniche sufficienti ad aprire la BEE in modo temporaneo e reversibile, con la conseguente agevolazione del passaggio di farmaci ed anticorpi.
Inoltre, l’utilizzo di ultrasuoni e risonanza magnetica, rende la terapia non invasiva.
Risultati finora promettenti
Il recente annuncio dell’Università del Queensland (Australia) dell’avvio di un trial clinico nel 2019 è solo l’ultimo di una serie di passi che stanno portando a dimostrare la sicurezza e la fattibilità di questa tecnologia. Gli stessi ricercatori australiani avevano dimostrato, nel 2015, come fosse possibile eliminare la beta-miolide, la principale componente delle placche amiloidi che caratterizzano l’Alzheimer, nei cervelli di topo, utilizzando solamente gli ultrasuoni. Ciò ha aiutato a migliorare la memoria e a contrastare l’aspetto degenerativo di questa patologia.
Per quanto riguarda i test sull’essere umano, i primi ad aver dimostrato di poter aprire la BBE in modo sicuro e non invasivo, sono stati i ricercatori del Sunnybrook Health Sciences Centre (Canada). Il primo successo è stato ottenuto nel 2015 nel corso di un trial clinico che voleva indagare la possibilità di somministrare la chemioterapia direttamente al tumore cerebrale di un paziente. Successivamente, la procedura che comprende il trattamento MRgFUS (Magnetic Resonance guided Focused Ultrasound) e l’iniezione intravenosa di microbolle, è stata eseguita su 5 pazienti affetti da Alzheimer allo stadio iniziale.
Gli ottimi risultati ottenuti da questa prima fase di test, iniziata nel 2017, aprono le porte alla seconda fase.
La fase 2 dello studio coinvolgerà l’apertura della barriera emato-encefalica allo stesso tempo in diverse regioni del cervello colpite dal morbo di Alzheimer. Se ciò andasse bene, il prossimo passo sarebbe introdurre molecole di grandi dimensioni, come anticorpi contro placche e grovigli, i depositi tossici del cervello associati a questa malattia. Se tali anticorpi venissero somministrati attraverso iniezione intravenosa, solo una piccola percentuale entrerebbe nel cervello, quindi le aperture periodiche potrebbero rimuovere più efficacemente queste proteine depositate.
Afferma la Dott.ssa Sandra Black, professoressa di medicina presso il Sunnybrook e l’Università di Toronto.