A gennaio 2020 il mondo era in preda ad un nemico invisibile, un virus chiamato Sars-CoV-2, denominato così dall’International Committee on Taxonomy of Viruses (ICTV), più semplicemente conosciuto con il nome Covid-19. Ad oggi, si contano circa 5,44 milioni di vittime a causa di questo virus (dati OMS). Le persone colpite manifestano dei sintomi tipici quali tosse secca, febbre, stanchezza cronica, mal di gola, diarrea e la perdita di gusto e olfatto (caratterizzante per questa malattia).
Gli individui che contraggono il Covid-19 possono avere degli effetti indesiderati, una cosiddetta “condizione Post-Covid-19”. Un team di ricercatori, medici e scienziati ha indagato, attraverso il metodo Delphi, quali sono le conseguenze del Covid-19 a lungo raggio. Si parla di tale condizione quando la sintomatologia persiste anche per i 3 mesi successivi al recupero dal contagio con modalità di comparsa e durata dei sintomi molto variabili quali affaticamento, mancanza di respiro, febbre intermittente e disfunzioni cognitive.
La sintomatologia è maggiormente dichiarata dalle donne e generalmente è strettamente correlata con l’età, ma sembra che questi effetti non siano connessi alla gravità dell’infezione pregressa e spesso collegano più apparati. Uno studio ha rilevato che fino al 70% degli individui a basso rischio di mortalità ha una compromissione di uno o più organi come cuore, polmoni, reni, fegato, pancreas e milza fino a 4 mesi dopo i sintomi iniziali di Covid-19. Lo scopo dello studio in questione è quella di cercare un caso clinico standardizzato alla risoluzione degli effetti legati ad una condizione Post-Covid-19.
L’assenza di un sistema globale standardizzato ostacola il progresso nella caratterizzazione della sua epidemiologia e lo sviluppo di possibili trattamenti. Quindi, a settembre 2020, a seguito di una richiesta degli Stati membri dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), i ricercatori dell’OMS hanno pensato che utilizzando una particolare tecnica d’indagine, usata per ottenere risposte ad un problema, si sarebbe riuscito a individuare una soluzione.
Stiamo parlando del metodo Delphi, un’indagine che si svolge sistematicamente coinvolgendo più parti di specialisti come medici, ricercatori, scienziati e i pazienti per un totale di un gruppo internazionale di 460 partecipanti. L’obiettivo? Quello di fornire raccomandazioni iniziali su come le strutture di riabilitazione dovrebbero modulare le loro attività considerando gli effetti della pandemia da Covid-19 in corso.
Innanzitutto i pazienti dovevano avere il requisito di essere nel gruppo di LongCovidSOS, e i medici dovevano essere individuati dall’OMS. Veniva chiesto ai partecipanti di rispondere ad alcune domande, in forma anonima, con un punteggio di 1 (poco rilevante) a 9 (molto rilevante). Il test comprendeva un “primo round” e dopo 5 settimane un “secondo round”. Si è cercato di utilizzare una popolazione il più eterogenea possibile. Sono state quindi reclutate persone di ogni genere di età, coprendendo un range da 20 a 90 anni (con la maggior parte dei partecipanti di età intorno ai 40 anni), che provenivano da ogni parte del mondo e venivano classificate anche in base al reddito, da alto a basso.
Con il primo questionario si sono raccolte maggiori informazioni possibili e le domande sottoposte, suddivise in paragrafi, corrispondevano a varie situazioni mediche. Ma di che tipo di domande si tratta?Nella sezione “Eventi cardiovascolari acuti”, per esempio, una domanda inserita nel questionario riportava “solo i pazienti con una diagnosi primaria di rischio cardiovascolare e una storia di COVID-19 devono essere indirizzati ad una riabilitazione cardiovascolare“.
Successivamente, con il secondo test, tra tutte le previsioni censite, si sono individuate quelle condivise dal maggior numero di esperti ed eliminati gli elementi che hanno ricevuto bassi punteggi; i partecipanti hanno avuto anche la possibilità di aggiungere commenti ad ogni quesito.
Il Delphi applica una metodica robusta basata su un rigido protocollo e proprio per la puntualità dei suoi
requisiti è stata scelta per rappresentare una valida soluzione a questo problema. Il metodo spesso viene utilizzato in campo economico, ma è stato possibile reinvestire e convertire la procedura per creare un modello utile alla sanità. Il senso è stato quello di mettere in campo ospedaliero un modello convenzionale al riconoscimento e all’assistenza sanitaria di soggetti adulti con una condizione post-Covid-19.
Il Covid-19 rimarrà una continua sfida globale considerando che il virus continua ad evolversi e quindi a mutare. In questo momento è la variante Omicron quella più preoccupante per la sua contagiosità e virulenza: sembra sia molto più trasmissibile e in grado di replicarsi circa 70 volte più velocemente di tutte le altre mutazioni, anche se è stata riscontrata la sua minor mortalità e gravità a livello respiratorio, soprattutto nelle persone vaccinate. La comunità scientifica sta cercando soluzioni in tempi record per contrastare l’avanzata del virus; molti ancora sono i punti oscuri su cui far luce per prevenire nuove e continue ondate pandemiche.
A cura di Enrico Cioppi.